Variante: Nei primi giorni di gennaio del 1980 fui fortunato. Kabul era invisibile. I carri armati sovietici appena arrivati, nei giorni di Natale, dall'Uzbekistan e dal Tagikistan sembravano elefanti galleggianti su un oceano immacolato, con le proboscidi, i cannoni, puntati contro il nulla. Perché la capitale era deserta. Le principali tribù a confronto in quelle ore, perlomeno a Kabul, erano comuniste. Da un lato i comunisti Khalq (popolo) e dall' altro i comunisti Parsham (bandiera). Ma lo schieramento non era cosi netto. La tragedia delle ultime settimane si era svolta con una mischia in cui era difficile distinguere le fazioni. Breznev aveva deciso di far intervenire l' Armata Rossa proprio per far cessare quella rissa tra compagni. Il segretario generale del partito sovietico era stato colpito dall'assassinio di Nuhr Mohammad Taraqi, suo amico personale. Taraqi era stato strangolato dagli uomini di Hafizullah Amin. Il quale sarebbe stato a sua volta fucilato dai sovietici, sostenitori di Babrak Karmal. Erano al tempo stesso faide personali e convulsioni rivoluzionarie, sulle quali pesavano le interferenze di Mosca.
“Prima della presenza americana, che ho vissuto nella fase iniziale tra Kabul e le regioni orientali, con una puntata a Tora Bora sull'Indu Kusch, avevo seguito un ventennio prima le tragiche vicende dei sovietici andati a vivere l' agonia del loro impero nel groviglio tribale afgano. Neppure i comunisti della fazione kalk (popolo), in larga parte Pashtun, il gruppo etnico maggioritario, erano fedeli all'Armata Rossa. I generali venuti da Mosca potevano fidarsi ciecamente soltanto dei parsham (bandiera), comunisti della corrente dominata per lo più dalla minoranza tagika.”
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