Bernardo Valli: Frasi su tempo

Bernardo Valli è giornalista e scrittore italiano. Esplorare le virgolette interessanti su tempo.
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“Anche Assad è laico e moderno, è un esponente del partito Baas, una volta interarabo ma da tempo frantumato in correnti nazionali, e anche Assad ha i riflessi pronti nell'eliminare gli avversari virtuali prima che diventino reali. Assad è simile a Saddam perché la Siria è come l'Iraq un mosaico di clan. Nel grande Egitto o nella piccola Tunisia i rais sono o sono stati di un altro stampo perché quei due paesi sono più omogenei. E attorno alle monarchie più note (in particolare la marocchina e la saudita) si sono creati consensi abbastanza ampi. Nonostante abbia ormai vent'anni, per il regime di Assad il consenso è invece spesso sulle punte delle spade o meglio sulle bocche dei cannoni dei suoi carri armati. Il clan di Assad è la setta alauita, scisma dell'Islam con vaghi elementi cristiani e alcuni dogmi segreti, considerata la maggioranza sunnita siriana un'eresia o un intollerabile groviglio di laici. Gli alauiti rappresentano poco più di un decimo della popolazione, sono all'incirca un milione e mezzo. Per imporsi Assad ha sparso molto sangue, in particolare a Hama, dove i suoi mezzi blindati hanno schiacciato nell'82 il movimento dei Fratelli Musulmani che in nome dell'Islam sunnita avevano aperto le ostilità contro il regime laico e moderno del Baas siriano, guidato da Assad, come quello iracheno è guidato da Saddam.”

Variante: Anche Assad è laico e moderno, è un esponente del partito Baas, una volta interarabo ma da tempo frantumato in correnti nazionali, e anche Assad ha i riflessi pronti nell'eliminare gli avversari virtuali prima che diventino reali. Assad è simile a Saddam perché la Siria è come l'Iraq un mosaico di clan. Nel grande Egitto o nella piccola Tunisia i rais sono o sono stati di un altro stampo perché quei due paesi sono più omogenei. E attorno alle monarchie più note (in particolare la marocchina e la saudita) si sono creati consensi abbastanza ampi. Nonostante abbia ormai vent'anni, per il regime di Assad il consenso è invece spesso sulle punte delle spade o meglio sulle bocche dei cannoni dei suoi carri armati. Il clan di Assad è la setta alauita, scisma dell'Islam con vaghi elementi cristiani e alcuni dogmi segreti, considerata la maggioranza sunnita siriana un'eresia o un intollerabile groviglio di laici. Gli alauiti rappresentano poco più di un decimo della popolazione, sono all'incirca un milione e mezzo. Per imporsi Assad ha sparso molto sangue, in particolare a Hama, dove i suoi mezzi blindati hanno schiacciato nell'82 il movimento dei Fratelli Musulmani che in nome dell'Islam sunnita avevano aperto le ostilità contro il regime laico e moderno del Baas siriano, guidato da Assad, come quello iracheno è guidato da Saddam.

“Ci fu un tempo, non tanto lontano, in Occidente, in cui il carattere laico e moderno del presidente iracheno era apprezzato, se non proprio esaltato. Il confronto con Khomeini concedeva un notevole vantaggio a Saddam Hussein. Di fronte alla rivoluzione islamica di Teheran, esportatrice di un oscurantismo inquietante, la classica dittatura di Bagdad, senza propositi missionari, sembrava un argine non solo accettabile ma provvidenziale. È capitato a molti di noi di scrivere o di pensare qualcosa del genere durante la guerra Iran-Iraq. L'Iraq non era proprio una diga democratica, questo no, questo nessuno ha osato dirlo: ma un utile sbarramento laico e moderno, ossia efficiente, sì: un argine, appunto, in grado di contenere un fanatismo come quello iraniano ansioso di ricondurre le società musulmane ai secoli più bui della loro storia, e di aggredire attraverso il terrorismo gli infedeli dell'Occidente europeo e americano. Al contrario degli ayatollah iraniani, i dirigenti del partito Baas iracheno non erano considerati una minaccia alla stabilità del Golfo, vale a dire del mercato del petrolio. Khomeini costruiva moschee, Saddam Hussein scuole e ospedali e caserme. Egli dedicava, è vero, una particolare attenzione a quest'ultime ed anche alle prigioni, come del resto faceva Khomeini, ma, al contrario di Khomeini, era al tempo stesso favorevole all'emancipazione delle donne, alle quali a Bagdad non veniva imposto il ciador. Quando negli acquitrini della Mesopotamia meridionale, dove si incontrano il Tigri e l'Eufrate, furono scoperti nel 1984 migliaia di giovani iraniani uccisi dai gas iracheni, la nostra morale non fu affatto scossa. L'utilità di Saddam Hussein, in quanto diga del fondamentalismo musulmano, placava le nostre coscienze. Soltanto quattro anni dopo, quando i gas furono usati per mattare la città curda di Halabja, ci furono alcune reazioni.”

Variante: Ci fu un tempo, non tanto lontano, in Occidente, in cui il carattere laico e moderno del presidente iracheno era apprezzato, se non proprio esaltato. Il confronto con Khomeini concedeva un notevole vantaggio a Saddam Hussein. Di fronte alla rivoluzione islamica di Teheran, esportatrice di un oscurantismo inquietante, la classica dittatura di Bagdad, senza propositi missionari, sembrava un argine non solo accettabile ma provvidenziale. E' capitato a molti di noi di scrivere o di pensare qualcosa del genere durante la guerra Iran-Iraq. L'Iraq non era proprio una diga democratica, questo no, questo nessuno ha osato dirlo: ma un utile sbarramento laico e moderno, ossia efficiente, sì: un argine, appunto, in grado di contenere un fanatismo come quello iraniano ansioso di ricondurre le società musulmane ai secoli più bui della loro storia, e di aggredire attraverso il terrorismo gli infedeli dell' Occidente europeo e americano. Al contrario degli ayatollah iraniani, i dirigenti del partito Baas iracheno non erano considerati una minaccia alla stabilità del Golfo, vale a dire del mercato del petrolio. Khomeini costruiva moschee, Saddam Hussein scuole e ospedali e caserme. Egli dedicava, è vero, una particolare attenzione a quest' ultime ed anche alle prigioni, come del resto faceva Khomeini, ma, al contrario di Khomeini, era al tempo stesso favorevole all'emancipazione delle donne, alle quali a Bagdad non veniva imposto il ciador. Quando negli acquitrini della Mesopotamia meridionale, dove si incontrano il Tigri e l'Eufrate, furono scoperti nel 1984 migliaia di giovani iraniani uccisi dai gas iracheni, la nostra morale non fu affatto scossa. L' utilità di Saddam Hussein, in quanto diga del fondamentalismo musulmano, placava le nostre coscienze. Soltanto quattro anni dopo, quando i gas furono usati per mattare la città curda di Halabja, ci furono alcune reazioni.

“Era considerato un «criminale di guerra» dai palestinesi e un politico avventuroso da molti intellettuali israeliani. Un uomo imprevedibile, spericolato e intraprendente. Amante della guerra ma anche della quiete nella sua fattoria modello doveva faceva l'agricoltore. Interdetto come ministro della Difesa, dopo un lungo periodo di disgrazia, è diventato primo ministro. Un capo del governo capace di sorprendere, di stupire, così come aveva sorpreso e stupito come capo militare. Ha deciso la costruzione del muro fra i territori palestinesi e Israele, e al tempo stesso ha abbandonato Gaza ai palestinesi. Una concessione territoriale al momento eccezionale, rivelatasi poi insidiosa per l'autorità palestinese, dominata dall'Olp moderata, che ha perduto il controllo di quella provincia, dominata dalla più intransigente Hamas. L'iniziativa di Sharon tendeva forse a dividere gli avversari, ma era accompagnata da una politica tesa a stabilire rapporti distensivi con molti paesi arabie con gli stessi palestinesi. Da uomo di una destra spesso estrema, che aveva favorito l'insediamento di numerose colonie israeliane in Cisgiordania, è diventato un politico aperto a soluzioni pacifiche. Ha abbandonato il Likud e ha fondato un partito di centro, Kadima per questo è stato accusato di tradimento da alcuni suoi amici. E per non pochi vecchi nemici è apparso invece come un leader capace di favorire una vera intesa. La sua energia sembrava rivolta verso una giusta direzione. Ma il suo cervello ha ceduto. È intervenuta la morte cerebrale. Otto anni dopo diventata morte totale.”

“Si parla molto di più del cinquantenario dell'indipendenza indiana a Londra che a Nuova Delhi o a Bombay. Là si ricorda l'inizio della ritirata imperiale, cominciata nell'agosto del '47 a Nuova Delhi e conclusasi neppure due mesi fa, il 1 luglio del '97, mezzo secolo dopo, a Hong Kong. Una lunga cavalcata nostalgica a ritroso. La Gran Bretagna ha la rievocazione facile. Non deve fare bilanci. Li ha già fatti. Se qualcuno, a Londra, vuol proprio tirare le somme, non gli riesce certo difficile sottolineare i risultati negativi di questi cinquant'anni postcoloniali dell'India. Così facendo, si può implicitamente rivalutare il tempo del Britsh Raj. È però un esercizio rischioso: è ridicolo giocare con la storia. La storia consente invece qualche considerazione su ciò che accadde realmente nell'estate del '47. Si può ricordare che l'impero britannico, seguendo un'abitudine (non solo) coloniale consolidata, si prodigò nell'accentuare l'ostilità tra indù e musulmani. Divise per governare. Si può altresì rammentare che gli inglesi se ne andarono (in anticipo sulla data prevista) come da una nave che affonda. Fu esemplare la decisione di decolonizzare, ma non certo il calendario precipitoso, dopo due secoli di dominio. Il 15 agosto '47 resta una data importante non solo perché ha visto nascere la 'più grande democrazia del mondo', ma perché ha dato il via al processo di decolonizzazione, che ha cambiato la faccia del mondo. Winston Churchill detestava l'India e gli indiani, e non lo nascondeva.”

“Chi comanda in Ungheria da più di trent'anni, fino alla vigilia dell'89, è Janos Kadar: il più riuscito esempio di leader restauratore di un comunismo afflitto dall'incapacità di rendersi tollerabile. La sua carriera politica ha seguito un percorso zigzagante, tra stalinismo e riformismo, scandito da scomuniche e promozioni. Il suo è il classico curriculum vitae di un dirigente dell'Est. All'inizio non ha osteggiato l'insurrezione del'56, ma poi è stato uno dei "normalizzatori". Il pragmatico Kadar ha preso le distanze dal tumultuoso disordine, troppo traboccante di sognie di passioni, al tempo stesso rivolto contro il comunismo e in favore di un comunismo migliore. E ha finito col chiedere l'intervento sovietico, che comunque ci sarebbe stato. Con lo stesso realismo, arrivato al vertice del partito, ha adottato la politica dell'indulgenza. Non verso la contestazioneo la critica politica; ma verso i piaceri più individuali. LL'Ungheria è diventata con lui la meta dei privilegiati degli altri paesi comunisti, attirati dalle vetrine in cui erano esposti, non senza gusto e con insolita abbondanza, tanti prodotti introvabili nelle loro città, dai tessuti di qualità ai cosmetici più raffinati. Non mancavano la buona cucina e la vita notturna con la sua dose di erotismo. L'ideologia dei consumi, accompagnata da un certo laissezfaire nell'illusoria satira dei cabaret, funzionava da surrogato delle libertà fondamentali chieste durante l'insurrezione del'56 e respinte con la repressione. Con il suo comunismo "al gulash" Kadar raggiunse un consenso passivo invidiabile nelle altre capitali del socialismo reale, alcune delle quali assai più dotate di risorse dell'Ungheria, paese economicamente gracile con una testa enorme e fantasiosa quale era (ed è) la sua capitale.”

“Nei primi giorni di gennaio del 1980 fui fortunato. Kabul era invisibile. I carri armati sovietici appena arrivati, nei giorni di Natale, dall'Uzbekistan e dal Tagikistan sembravano elefanti galleggianti su un oceano immacolato, con le proboscidi, i cannoni, puntati contro il nulla. Perché la capitale era deserta. Le principali tribù a confronto in quelle ore, perlomeno a Kabul, erano comuniste. Da un lato i comunisti Khalq (popolo) e dall'altro i comunisti Parsham (bandiera). Ma lo schieramento non era cosi netto. La tragedia delle ultime settimane si era svolta con una mischia in cui era difficile distinguere le fazioni. Breznev aveva deciso di far intervenire l'Armata Rossa proprio per far cessare quella rissa tra compagni. Il segretario generale del partito sovietico era stato colpito dall'assassinio di Nuhr Mohammad Taraqi, suo amico personale. Taraqi era stato strangolato dagli uomini di Hafizullah Amin. Il quale sarebbe stato a sua volta fucilato dai sovietici, sostenitori di Babrak Karmal. Erano al tempo stesso faide personali e convulsioni rivoluzionarie, sulle quali pesavano le interferenze di Mosca.”

Variante: Nei primi giorni di gennaio del 1980 fui fortunato. Kabul era invisibile. I carri armati sovietici appena arrivati, nei giorni di Natale, dall'Uzbekistan e dal Tagikistan sembravano elefanti galleggianti su un oceano immacolato, con le proboscidi, i cannoni, puntati contro il nulla. Perché la capitale era deserta. Le principali tribù a confronto in quelle ore, perlomeno a Kabul, erano comuniste. Da un lato i comunisti Khalq (popolo) e dall' altro i comunisti Parsham (bandiera). Ma lo schieramento non era cosi netto. La tragedia delle ultime settimane si era svolta con una mischia in cui era difficile distinguere le fazioni. Breznev aveva deciso di far intervenire l' Armata Rossa proprio per far cessare quella rissa tra compagni. Il segretario generale del partito sovietico era stato colpito dall'assassinio di Nuhr Mohammad Taraqi, suo amico personale. Taraqi era stato strangolato dagli uomini di Hafizullah Amin. Il quale sarebbe stato a sua volta fucilato dai sovietici, sostenitori di Babrak Karmal. Erano al tempo stesso faide personali e convulsioni rivoluzionarie, sulle quali pesavano le interferenze di Mosca.

“Mi è capitato da giovane reporter di frequentare i principali personaggi di quella lunga tragedia africana – Lumumba Tschombé, Kasavubu, Mobutu…- e francamente non so se l'avvenire del Congo-Zaire sarebbe stato diverso, migliore, se invece di Mobutu fosse rimasto in sella uno dei perdenti. Ma il ricordo che ho di Lumumba è quello di un uomo che non ebbe il tempo – come ho detto – di corrompersi. Era un ambiziosissimo sognatore. Mobutu era un uomo d'azione. Un uomo di mano.”

Variante: Mi è capitato da giovane reporter di frequentare i principali personaggi di quella lunga tragedia africana - Lumumba Tschombé, Kasavubu, Mobutu...- e francamente non so se l'avvenire del Congo-Zaire sarebbe stato diverso, migliore, se invece di Mobutu fosse rimasto in sella uno dei perdenti. Ma il ricordo che ho di Lumumba è quello di un uomo che non ebbe il tempo - come ho detto - di corrompersi. Era un ambiziosissimo sognatore. Mobutu era un uomo d'azione. Un uomo di mano.

“La posta in gioco sono centinaia di migliaia di profughi hutu, fuggiti dal Ruanda nel timore di una rappresaglia, dopo il genocidio dei '94. Una massa umana in bilico sul confine, respinta dai tutsi: e di cui si servono invece, come di un ariete, i superstiti dell'ex regime di Kigali, autore del massacro, ora alla ricerca di una rivincita, con l'aiuto dello Zaire. Là il dramma ruandese può essere il detonatore che fa saltare quell'autentica polveriera tribale che è l'ex Congo belga. Un paese disegnato sulle frontiere coloniali, senza tener conto della storia – non scritta – di quelle regioni: e che adesso rischia, come già accadde al momento dell'indipendenza, di andare in frantumi e di destabilizzare l'intera Africa centrale. È al tempo stesso allucinante ed esemplare. A conclusione di un secolo che ha conosciuto la morte del colonialismo, e che ora, arrivato alla fine, assiste alla non tanto lenta rovina del continente nero, questo dramma ruandese è in definitiva il risultato di quello che gli scrittori africani riuniti a Roma, nella primavera del '59, denunciarono come uno dei più gravi peccati occidentali: l'avere accettato, senza discutere, e diffuso, la nozione di un popolo, quello africano, "senza cultura."”

Ed anche "senza storia", perché, appunto, la si tramandava per via orale. Partendo da questo principio, coloni e (spesso) missionari hanno creato una storia africana con un calco occidentale e hanno imposto la loro cultura come se prima ci fosse stato il vuoto. Ne sono uscite delle mostruosità.
Variante: La posta in gioco sono centinaia di migliaia di profughi hutu, fuggiti dal Ruanda nel timore di una rappresaglia, dopo il genocidio dei '94. Una massa umana in bilico sul confine, respinta dai tutsi: e di cui si servono invece, come di un ariete, i superstiti dell'ex regime di Kigali, autore del massacro, ora alla ricerca di una rivincita, con l'aiuto dello Zaire. Là il dramma ruandese può essere il detonatore che fa saltare quell'autentica polveriera tribale che è l'ex Congo belga. Un paese disegnato sulle frontiere coloniali, senza tener conto della storia – non scritta – di quelle regioni: e che adesso rischia, come già accadde al momento dell'indipendenza, di andare in frantumi e di destabilizzare l'intera Africa centrale. È al tempo stesso allucinante ed esemplare. A conclusione di un secolo che ha conosciuto la morte del colonialismo, e che ora, arrivato alla fine, assiste alla non tanto lenta rovina del continente nero, questo dramma ruandese è in definitiva il risultato di quello che gli scrittori africani riuniti a Roma, nella primavera del '59, denunciarono come uno dei più gravi peccati occidentali: l'avere accettato, senza discutere, e diffuso, la nozione di un popolo, quello africano, "senza cultura". Ed anche "senza storia", perché, appunto, la si tramandava per via orale. Partendo da questo principio, coloni e (spesso) missionari hanno creato una storia africana con un calco occidentale e hanno imposto la loro cultura come se prima ci fosse stato il vuoto. Ne sono uscite delle mostruosità.

“Hafez el-Assad è morto nel suo letto, e gli ha dato il cambio Bashar, il figlio, il quale rischia una fine molto più agitata. Quando nell'82 si scopri che il vecchio Assad aveva fatto massacrare ventimila tra uomini e donne nella città di Hama, dove i Fratelli musulmani si erano ribellati allo strapotere di Damasco, pensai, e non fui il solo, che presto o tardi qualcuno avrebbe vendicato i sunniti sepolti sotto le rovine di Hama da centinaia di bulldozer. Eppure sono passati più di trent'anni e gli Assad se la sono cavata. Almeno finora. Penso che a proteggerli sia stata anche la loro fama di rais "laici". Eh sì, laici. Una specie di licenza di uccidere veniva infatti accordata ai capi arabi considerati laici. Si pensi a Saddam Hussein che quando, negli anni Ottanta, sfidò la teocrazia iraniana di Khomeini ebbe la simpatia dell'Occidente. Il suo partito, il Baath, non era forse laico e considerato eretico da molti musulmani zelanti? E il Baath (sia pure in una versione siriana, diversa da quella irachena) era anche il partito degli Assad. Una prova di laicità guardata con un certo interesse, anche se con diffidenza, da chi temeva l'ondata islamista. Ai Fratelli musulmani, non sempre rinsaviti, non sempre moderati, gli Assad, padre e figlio, non hanno mai risparmiato la galera o nei casi estremi la sepoltura con il bulldozer. Veri laici d'Oriente. Generale d'aviazione, Hafez aveva lo sguardo celestino. Due ferritoie e due occhi fissi. Pugnali avvelenati col sorriso. Il figlio Bashar è un medico. Ha l'aria di un bravo ragazzo. Persino un po' pirla. Un simpaticone, fino al giorno in cui l'esercito ereditato dal padre ha esagerato, accelerando la dinamica omicida. In realtà sempre in servizio permanente. A cominciare le "primavere arabe" non sono stati i Fratelli musulmani. Sono stati i giovani figli del web, un tempo si sarebbe detto giovani di sinistra, adesso è più appropriato l'altrettanto generico aggettivo "modernizzati."”

I Fratelli musulmani e i derivati integralisti, salafiti ed altri, si sono intromessi nella folla in rivolta. Avevano sulle spalle anni, decenni di galera e di torture e avevano il diritto di ribellarsi.
Origine: Da Assad e la sindrome irachena http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/07/20/olds/assad-la-sindrome-irachena.002assad.html?ref=search, la Repubblica, 20 luglio 2012.