Oriana Fallaci: Stesso

Oriana Fallaci era scrittrice italiana. Esplorare le virgolette interessanti su stesso.
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“Soprattutto non credo alla frode dell'Islam Moderato. Come protesto nel libro Oriana Fallaci intervista sé stessa e ne L'Apocalisse, quale Islam Moderato?!? Quello dei mendaci imam che ogni tanto condannano per eccidio ma subito dopo aggiungono una litania di «ma», «però», «nondimeno»? È sufficiente cianciare sulla pace e sulla misericordia per essere considerati Mussulmani Moderati? È sufficiente portare giacche e pantaloni invece del djabalah, blue jeans invece del burka o del chador, per venir definiti Mussulmani Moderati? È un Mussulmano Moderato uno che bastona la propria moglie o le proprie mogli e uccide la figlia se questa si innamora di un cristiano? Cari miei, l'Islam moderato è un'altra invenzione. Un'altra illusione fabbricata dall'ipocrisia, dalla furberia, dalla quislingheria o dalla Realpolitik di chi mente sapendo di mentire. L'Islam Moderato non esiste. E non esiste perché non esiste qualcosa che si chiama Islam Buono e Islam Cattivo.
Esiste l'Islam e basta. E l'Islam è il Corano. Nient'altro che il Corano. E il Corano è il Mein Kampf di una religione che ha sempre mirato ad eliminare gli altri. Una religione che ha sempre mirato a eliminare gli altri. Una religione che si identifica con la politica, col governare. Che non concede una scheggia d'unghia al libero pensiero, alla libera scelta. Che vuole sostituire la democrazia con la madre di tutti i totalitarismi: la teocrazia.”

“Io trovo vergognoso che tanti italiani e tanti europei abbiano scelto come vessillo il signor (si fa così per dire) Arafat. Questa nullità che grazie ai soldi della Famiglia Reale Saudita fa il Mussolini ad perpetuum e che nella sua megalomania credi di passare alla Storia come il George Washington della Palestina. Questo sgrammaticato che quando lo intervisti non riesce nemmeno a compilare una frase completa, un discorso articolato. Sicché per ricomporre il tutto, scriverlo, pubblicarlo, duri una fatica tremenda e concludi che paragonato a lui perfino Gheddafi diventa Leonardo da Vinci. Questo falso guerriero che va sempre in uniforme come Pinochet, mai che indossi un abito civile, e che tuttavia non ha mai partecipato ad una battaglia. La guerra la fa fare, l'ha sempre fatta fare, agli altri. Cioè ai poveracci che credono in lui. Questo pomposo incapace che recitando la parte del Capo di Stato ha fatto fallire i negoziati di Camp David, la mediazione di Clinton. No-no-Gerusalemme-la-voglio-tutta-per-me, Questo eterno bugiardo che ha uno sprazzo di sincerità soltanto quando (en privè) nega a Israele il diritto di esistere, e che come dico nel mio libro si smentisce ogni cinque secondi. Fa sempre il doppio gioco, mente perfino se gli chiedi che ora è, sicché di lui non puoi fidarti mai. Mai! Da lui finisci sistematicamente tradito. Questo eterno terrorista che sa fare solo il terrorista (stando al sicuro) e che negli Anni Settanta cioè quando lo intervistai addestrava pure i terroristi della Baader-Meinhof. Con loro, i bambini di dieci anni. Poveri bambini. (Ora li addestra per farne kamikaze. Cento baby-kamikaze sono in cantiere: cento!). Questa banderuola che la moglie la tiene a Parigi, servita e riverita come una regina, e che il suo popolo lo tiene nella merda. Dalla merda lo toglie soltanto per mandarlo a morire, a uccidere e a morire, come le diciottenni che per meritarsi l'uguaglianza con gli uomini devono imbottirsi d'esplosivo e disintegrarsi con le loro vittime. Eppure tanti italiani lo amano, sì. Proprio come amavano Mussolini. Tanti altri europei, lo stesso.”

Origine: Da Sull'antisemitismo http://www.oriana-fallaci.com/18-aprile-2002/articolo.html, Panorama, 18 aprile 2002.

“Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse "Lettera a un bambino mai nato" e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d'accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l'Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l'Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un'atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev'esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un'atea, sì. Un'atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un'atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne "La Forza della Ragione" uso un intero capitolo per spiegare l'apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L'ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui si deduce che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più intelligenti che in quella laica alla quale appartengo. […] E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l'incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana.”

“Apparteniamo a un'epoca in cui cinema e Tv si sostituiscono alla parola scritta, al racconto scritto, e nel dialogo con il mondo i registi anzi gli attori si sostituiscono agli scrittori. Nessuno infatti, neanch'io, resiste al narcotico richiamo dello schermo, al perpetuo svago offertoci da un sistema di comunicazione che trasforma in pubblico trastullo anche la sacra intimità del sesso e la inviolabile solennità della morte. Soggiogati, ipnotizzati dalla moderna Medusa, passiamo ore a guardar le sue immagini e ascoltare i suoi suoni. Di conseguenza leggiamo assai meno, e molti non leggono più. Ritengono che si possa vivere senza leggere cioè senza la parola scritta, il racconto scritto, gli scrittori. Invece no. No, e non tanto perché lo stesso cinema e la stessa Tv non prescindono dalla parola scritta, dal racconto scritto, dagli scrittori, quanto perché lo schermo non permette e non permetterà mai di pensare come si pensa leggendo: le sue immagini e i suoi rumori distraggono troppo, impediscono di concentrarsi. Oppure suggeriscono riflessioni troppo superficiali e passeggere. Inoltre si preoccupa troppo di stupire e divertire, lo schermo, diverte e stupisce con mezzi troppo rudimentali e giocattoleschi: se ne frega delle tue meningi. È superfluo ricordare che per leggere ci vuole un minimo di meningi cioè di intelligenza e cultura, superfluo sottolineare che qualsiasi idiota o qualsiasi analfabeta con due occhi e due orecchi può guardare le immagini e ascoltare i suoni della moderna Medusa. Ma per vivere, per sopravvivere, è necessario pensare! Per pensare è necessario produrre idee, fornirle! E chi più dello scrittore produce idee? Chi più di lui le fornisce? Lo scrittore è una spugna che assorbe la vita per risputarla sotto forma di idee, è una mucca eternamente incinta che partorisce vitelli sotto forma di idee, è un rabdomante che trova l'acqua in qualunque deserto e la fa zampillare sotto forma di idee: è un mago Merlino, un veggente, un profeta. Perché vede cose che gli altri non vedono, sente cose che gli altri non sentono, immagina e anticipa cose che gli altri non possono né immaginare né anticipare… E non solo le vede, le sente, le immagina, le anticipa: le trasmette. Da vivo e da morto. Cara, nessuna società s'è mai evoluta al di fuori degli scrittori. Nessuna rivoluzione (buona o cattiva che fosse) è mai avvenuta al di fuori degli scrittori. Nel bene e nel male, sono sempre stati gli scrittori a muovere il mondo: cambiarlo. Sicché scrivere è il mestiere più utile che ci sia. Il più esaltante, il più appagante del creato.”

il Professore: II, VI, IV; pp. 416–418
Insciallah

“È una macchina diabolica, l'esercito, e il militarismo un ingranaggio mortale. Lo sai qual è la ricetta per fotter le reclute fin dal momento in cui arrivano alla caserma, Bernard? Prima si schierano sul piazzale coi loro abiti borghesi affinché ricordino d'appartenere a una società priva di uguaglianza, vale a dire un consorzio nel quale c'è chi veste bene e chi veste male. Poi gli si infila l'uniforme affinché si illudano d'accedere a un sodalizio di uguali, vale a dire un consorzio nel quale tutti vestono i medesimi panni. Subito dopo si rimbecilliscono con le esercitazioni e le marce che stroncano. E-marciando-cantate-così-tenete il passo. (Però il passo non c'entra, Bernard. C'entra che a cantare non pensano, e a non pensare non s'accorgono di venir fottuti.) Infine si cancella la loro personalità, la loro individualità. Perché il soldato non deve essere un individuo, una persona: deve esser parte d un nucleo perfetto che agisce all'unisono. E lo sai qual è l'ingrediente per ottenere un nucleo perfetto o quasi perfetto? L'odio. L'odio collettivo cioè diretto verso lo stesso bersaglio, e non il bersaglio rappresentato dal nemico che la guerra ti procura o ti procurerà: il bersaglio rappresentato da un paria coi gradi di sergente. Il sergente becero, ignorante, di cui subisci la tirannia che gli è stata delegata dal tenente al quale è stata delegata dal capitano al quale è stata delegata dal maggiore al quale è stata delegata dal colonnello al quale è stata delegata dal generale al quale è stata delegata dalla Macchina, a cui hanno insegnato a berciare come a un cantante si insegna a gorgheggiare do-re-mi-fa-sol-la. Sì, gli hanno insegnato a usare la voce per comandarti e sfotterti e umiliarti, Bernard. E lui la usa nel modo prescritto. «Sei laureato, tu? Bene, allora va' a pulire i cessi.» Al contadino e all'operaio, invece: «Razza di piercolo, da che fogna vieni? Non sai nemmeno contare, somaro?» Poi dispetti, addestramenti forzati, canagliate, fino a quando laureati e contadini e operai lo odiano in uguale misura, e il nucleo quasi perfetto è ottenuto. "Quasi" perché manca il tocco finale, l'ingrediente decisivo, e indovina qual è il tocco finale. L'ingrediente decisivo. È l'amore. L'amore concentrato sullo stesso bersaglio che stavolta è il tenente o meglio ancora il capitano. Insomma l'ufficiale buono, comprensivo, paterno, che ascolta e consola e magari si rivolge a te con il Lei. «È laureato, lei? Bravo, me ne rallegro. È contadino, lei? Bravo, me ne compiaccio. È operaio, lei? Bravo, me ne complimento.» Oppure: «Sì, la rampogna del sergente è stata eccessiva: lo rimprovererò a mia volta. Voglio essere un amico, per voi, in caso di bisogno rivolgetevi a me.» Bisogno? Che bisogno? Ormai l'unico bisogno di cui hanno bisogno è ricevere amore, darlo, e dall'odio per il sergente passano all'amore per il tenente o il capitano. Il-mio-capitano. Per il loro capitano accettano qualsiasi sacrificio, qualsiasi martirio, sono pronti a crepare. Con lui salteranno fuori dalla trincea, con lui si lanceranno contro la mitragliatrice che falcia, con lui uccideranno il nemico cioè il disgraziato che dall'altra parte della barricata ha subìto l'identico trattamento, con lui creperanno come bovi al macello. E questo, inutile dirlo, senza che sospettino d'esser le vittime d'un lurido imbroglio, le ruote di un ingranaggio ben oliato e ben collaudato. Perenne.”

I, IV, I; pp. 110–112
Insciallah

“Il vero soldato mente a sé stesso quando dice di odiare la guerra. Egli ama in modo profondo la guerra. E non perché sia un uomo particolarmente malvagio, assetato di sangue, ma perché ama la vitalità che (per quanto paradossale possa sembrare) la guerra porta dentro di sé. Con la vitalità, la sfida e la scommessa e il mistero di cui essa si nutre. Sul palcoscenico della gran commedia che ha nome "pace" il mistero non esiste. Sai già che lo spettacolo si compone di alcuni atti e che dopo il primo atto vedrai il secondo, dopo il secondo vedrai il terzo: le incognite riguardano solo lo sviluppo della storia narrata e il suo epilogo. Sul palcoscenico della gran tragedia che ha nome "guerra", invece, non sai mai che cosa accadrà. Che tu ne sia spettatore o interprete, ti chiedi sempre se vedrai la fine del primo atto. E il secondo è una possibilità. Il terzo, una speranza. Il futuro, un'ipotesi. Puoi morire in qualsiasi momento, alla guerra, e in qualsiasi momento puoi restar ferito cioè venire tolto dal cast o dal recinto del pubblico. Tutto è un'incognita lì, un interrogativo che tiene col fiato sospeso, ma proprio per questo ci vibri d'una vitalità esasperata. I tuoi occhi sono più attenti, alla guerra, i tuoi sensi più svegli, i tuoi pensieri più lucidi. Scorgi ogni particolare, percepisci ogni odore, ogni rumore, ogni sapore. E, se hai cervello, puoi studiarvi l'esistenza come nessun filosofo potrà mai studiarla: puoi analizzarvi gli uomini come nessun psicologo potrà mai analizzarli, capirli come non potrai mai capirli in un tempo e in un luogo di pace. Se poi sei un cacciatore, un giocatore d'azzardo, ti ci diverti come non ti sei mai divertito e non ti divertirai mai nel bosco o nella tundra o al tavolo della roulette. Perché l'atroce gioco della guerra è la caccia delle cacce, la sfida delle sfide, la scommessa delle scommesse. La caccia all'Uomo, la sfida alla Morte, la scommessa con la Vita. Eccessi di cui il vero soldato ha bisogno.”

I, V, I; pp. 145–146
Insciallah

“Quanto all'Occidente, osservava in imbarazzato silenzio e chi aveva salutato con entusiasmo l'avvento dell'ayatollah confessava quasi a denti stretti il proprio errore o pentimento. La cosiddetta sinistra, quella sinistra per cui una rivoluzione va sempre assolta e chi non è d'accorso su questo è un fascista, tentava addirittura di giustificare lo scempio. «Devi capire che la rivoluzione non è un invito a nozze.» «Pensa a Robespierre e alle migliaia di ghigliottinati durante il Terrore, pensa a Lenin e alle centinaia di migliaia liquidati con le Grandi Purghe.» «Non dimenticare che certi eccessi sono inevitabili e necessari. Non è la prima volta che la rivoluzione divora i propri figli.» Non avevano detto le stesse cose, del resto, quando la libertà era stata assassinata in Polonia e in Cecoslovacchia e in Ungheria e nella Germania dell'Est, quando i sogni erano stati traditi a Cuba e in Vietnam? Non s'erano forse macchiati della stessa malafede, gli ipocriti, non s'erano forse rifugiati dietro la stessa disonestà, lo stesso timore d'apparir reazionari? Lo sapevo ben io che fino al giorno in cui avevo raccontato le infamie viste a Saigon, le colpe degli americani e dei sudvietnamiti e dei Loan, me l'ero cavata benissimo: conquistando orde di ammiratori e di amici. «Gran giornalista, grande scrittrice, gran donna.» Però appena avevo raccontato le infamie viste ad Hanoi, le colpe dei nordvietnamiti e dei vietcong e dei Giap, ero stata linciata sui loro giornali. E gli ammiratori s'erano trasformati in dispregiatori, gli amici in nemici: «Mascalzona, calunniatrice, serva del Pentagono. Ha offeso la rivoluzione!».
La rivoluzione. È dalla presa della Bastiglia che l'Occidente vive nella bugia chiamata rivoluzione. È da allora che questa parola equivoca ci ricatta come una parola santa, in quanto tale ci viene imposta come sinonimo di libertà-uguaglianza-fraternità, simbolo del riscatto e del progresso, speranza per gli oppressi. È da allora che le stragi compiute in suo nome vengono assolte, giustificate, accettate, che i suoi figli vengono macellati dopo aver macellato: convinti che essa sia la cura di ogni cancro, la panacea di ogni male. Ma rispettosamente la pronunciamo, rispettosamente la studiamo a scuola, rispettosamente la analizziamo nei trattati di politologia e nei saggi di filosofia. Rispettosamente non osiamo contestarla, rifiutarla, sbugiardarla sputando in faccia agli imbecilli e ai violenti che se ne servono per carriera.”

Origine: Intervista con il Potere, pp. 36–37