Frasi su sommità

Una raccolta di frasi e citazioni sul tema sommità, due-giorni, tempo, cosa.

Frasi su sommità

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“Basil Grant ed io stavamo discorrendo un giorno in quello che forse è il più bel posto del mondo per discorrere: la piattaforma superiore di un tram discretamente deserto. Conversare sulla sommità di un colle è una cosa superba, ma conversare su di una collina volante è una cosa da fiaba. La vasta e scialba estensione della parte nord di Londra spariva; la buona anatura ci dava il senso della sua immensità e della sua bassezza. Era, se fosse possibile esprimersi così, una ignobile infinità, una squallida eternità, e noi sentivamo il reale orrore dei quartieri poveri di Londra, l'orrore che è interamente svisato e frainteso dai romanzi sensazionali che li dipingono come un ammasso di vie strette, di case sporche, una tana di delinquenti e di pazzi, una bolgia del vizio. In un vicolo stretto, in un covo di vizi voi non dovete cercare la civiltà, non dovete cercare l'ordine. Ma la cosa orribile di quei quartieri era il fatto che la civiltà c'era, che l'ordine c'era, ma la civiltà vi appariva solo nel suo lato morboso, e l'ordine solo nella sua monotonia. Nessuno direbbe passando per un quartiere di delinquenti: "Non vedo monumenti, non rilevo traccia di cattedrali". Ma là c'erano degli edifici pubblici, solo che si trattava per lo più di manicomi; c'erano anche delle statue, ma si trattava generalmente di monumento di ingegneri ferroviari e di filantropi, due brtte genìe d'uomini unite dal loro comune disprezzo per il popolo. C'erano delle chiese, ma erano le chiese di sette oscure ed errabonde, come gli Agapemoniti o gli Irvingiti. C'erano, oltre a ciò, grandi strade, e vasti incroci, e linee tranviarie, e tutti i segni reali della civiltà!”

Gilbert Keith Chesterton (1874–1936) scrittore, giornalista e aforista inglese

Origine: Il Club dei Mestieri Stravaganti, p. 51

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“La città di Alesia si trovava alla sommità di un colle molto elevato […] Le radici di questo colle erano bagnate da due parti da due fiumi. Davanti alla città si estendeva una pianura di circa tre miglia, dagli altri lati la città era circondata da colli di uguale altezza posti a non molta distanza.”

VII, 69, traduzione di F. Brindesi, Rizzoli, Milano
Ipsum erat oppidum Alesia in colle summo admodum edito loco [...] Cuius collis radices duo duabus ex partibus flumina subluebant. Ante id oppidum planities circiter milia passuum III in longitudinem patebat; reliquis ex omnibus partibus collis mediocri interiecto spatio pari altitudinis fastigio oppidum cingebant.
Commentarii de bello gallico

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“Cosí diranno molti lettori, e rimprovereranno l'autore d'inverosimiglianza, o daranno dell'imbecille ai poveri funzionari, giacché l'uomo è generoso di questa parola imbecille, e pronto a somministrarla venti volte al giorno al suo prossimo. È sufficiente, di dieci lati, averne uno un po' sciocco, per esser spacciato imbecille a onta dei nove buoni. Ai lettori riesce facile trinciar giudizi guardando dal loro angolo tranquillo, da una sommità da cui è tutta aperta la visuale su tutto quanto avviene in basso, dove l'uomo scorge soltanto gli oggetti vicini. Anche negli annali universali dell'umanità vi sono addirittura molti secoli, che, si direbbe, andrebbero cancellati e annullati, come superflui. Molti errori si sono compiuti a questo mondo, tali che, si direbbe, ora non li farebbe neppure un bambino. Che strade tortuose, cieche, anguste, impraticabili, lontane dal giusto orientamento, ha scelto l'umanità nel suo conato di pervenire alla verità eterna, mentre pure aveva innanzi tutta aperta la retta via, simile a quella che conduce alle splendide stanze, destinate all'imperatore in una reggia! Piú larga di tutte l'altre vie, piú fastosa era questa, rischiarata dal sole e illuminata tutta notte dai fuochi: ma fuori di essa, nella fitta oscurità, ha proceduto il flusso degli uomini. E quante volte, già guidati da un pensiero che scendeva dai cieli, essi hanno ancora saputo deviare e smarrirsi, hanno saputo nel pieno fulgore del giorno cacciarsi un'altra volta nei fondi impraticabili, hanno saputo un'altra volta spandersi l'un l'altro negli occhi una cieca nebbia, e vagando dietro ai fuochi fatui, hanno pur saputo spingersi fin sull'orlo dell'abisso, per poi, inorridendo, domandarsi l'un l'altro: – Dov'è l'uscita? dov'è la via? – Ora tutto appare chiaro alla generazione che passa, e si meraviglia degli errori, ride della semplicità dei suoi antenati, e non vede che un fuoco celeste irradia tutti questi annali, che grida da essi ogni lettera, e che di là, penetrante, un dito s'appunta proprio su essa, su essa, la generazione che passa. Ma ride la generazione che passa, e sicura di sé, orgogliosa, dà inizio a una nuova serie di errori, sui quali a loro volta rideranno i posteri.”

Nikolaj Vasiljevič Gogol (1809–1852) scrittore e drammaturgo ucraino

I, 10; 1977, p. 210

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“Se guardate la storia della magia, vedrete le sue origini nelle caverne. Vedrete le sue origini nello sciamanesimo, nell'animismo, nella credenza che ogni cosa che ci circonda, ogni albero, ogni roccia, ogni animale, sia abitato da una qualche forma di essenza, una qualche sorta di spirito con cui forse si potrebbe comunicare. Avreste avuto uno sciamano o un visionario che sarebbe stato responsabile di incanalare le idee utili alla sopravvivenza. Prima che raggiungiate le civiltà classiche potrete vedere che questo è stato formalizzato in un certo status. Lo sciamano agisce puramente come un intermediario tra gli spiriti e le persone. La sua posizione nel villaggio o nella comunità è simile a quella di un idraulico spirituale. Ogni persona nel gruppo ha il suo ruolo. La persona migliore nella caccia era un cacciatore, la persona migliore nel parlare con gli spiriti, forse perché lui o lei era un po' pazzo/a, un po' staccato dal nostro normale mondo materiale, allora sarebbe stato uno sciamano. E gli sciamani non padroneggiavano un'arte segreta, essi dispensavano semplicemente le loro informazioni alla comunità, perché si credeva che fosse utile alla comunità. Quando abbiamo l'emergere delle culture classiche, tutto questo è stato formalizzato tanto che si hanno dei interi pantheon di dèi. E ognuno di questi dèi avrà una casta di preti che agiranno fino a un certo punto come intermediari che ti insegneranno ad adorare quel dio. Così la relazione tra gli uomini e i loro dèi, che potrebbe essere vista come la relazione tra gli uomini e il loro Io più alto, era ancora di tipo diretto. Quando arrivò il cristianesimo, quando arrivò il monoteismo, tutt'a un tratto hai una casta di sacerdoti che si muoveva tra l'adoratore e l'oggetto di adorazione. Hai una casta sacerdotale che era diventata una specie di dirigenza d'intermediazione spirituale tra l'umanità e la divinità interiore di cui si andava alla ricerca. Non puoi avere un rapporto diretto con un dio. I sacerdoti non hanno davvero il bisogno di un rapporto con la divinità. Hanno solo un libro che ti dice di alcune persone vissute tanto tempo fa, che hanno avuto un rapporto diretto con la divinità. E va tutto bene. Non hai bisogno di avere visioni miracolose, non hai bisogno di avere degli dèi che ti parlino. In effetti, se ti capita niente del genere, probabilmente sei matto. Nel mondo moderno questa roba non succede. Le sole persone a cui è permesso parlare con gli dèi, e in un modo davvero a senso unico, sono i preti. Per me il monoteismo è una grande semplificazione. Voglio dire, la Cabala ha una grande molteplicità di dèi, ma alla sommità del diagramma cabalistico, l'albero della vita, ha quest'unica sfera, che è il dio assoluto. La Monade. Qualcosa che è indivisibile. E tutti gli altri dèi, e ogni altra cosa nell'universo è una specie di emanazione di quel dio. Ora, questo va bene. Ma quando suggerisci che ci sia solo quell'unico dio, a quell'irraggiungibile altezza al di sopra dell'umanità e che non c'è niente in mezzo, stai limitando e semplificando la questione. Penso che il paganesimo sia una specie di alfabeto, come un linguaggio. È come se tutti gli dèi sono le lettere di quel linguaggio, esprimono delle sfumature, ombre del significato, o certe sottigliezze delle idee. Mentre il monoteismo tende ad essere solo una vocale, ed è solo tipo: oooouh [Alan Moore stesso nel documentario per far comprendere il suono scimmiesco. ]. È questo suono scimmiesco. Puoi quasi immaginare gli dèi divenire frustrati, sprezzanti. Perché con tutta la ricchezza di concetti spirituali che sono disponibili, perché ridurre tutto a una sola, singola nota monocorde che chi pronuncia neanche comprende?”

Alan Moore (1953) fumettista e scrittore britannico

citato nel documentario di Dez Vylenz, The Mindscape Of Alan Moore, Shadowsnake films, visibile su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=rZXoinYCReE, subititolato in italiano

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“Io quand'ero questore scoprii la sua tomba [di Archimede], sconosciuta ai Siracusani, cinta con una siepe da ogni lato e vestita da rovi e spineti, sebbene negassero completamente che esistesse. Tenevo, infatti, alcuni piccoli senari, che avevo sentito essere scritti nel suo sepolcro, i quali dichiaravano che alla sommità del sepolcro era posta una sfera con un cilindro. Io, poi, osservando con gl'occhi tutte le cose – c'è, infatti, alle porte Agrigentine una grande abbondanza di sepolcri – volsi l'attenzione ad una colonnetta non molto sporgente in fuori da dei cespugli, sulla quale c'era sopra la figura di una sfera e di un cilindro. E allora dissi subito ai Siracusani – c'erano ora dei principi con me – che io ero testimone di quella stessa cosa che stavo cercando. Mandati dentro con falci, molti ripulirono e aprirono il luogo. Per il quale, dopo che era stato aperto l'accesso, arrivammo alla base posta di fronte. Appariva un epigramma sulle parti posteriori corrose, di brevi righe, quasi dimezzato. Così la nobilissima cittadinanza della Grecia, una volta veramente molto dotta, avrebbe ignorato il monumento del suo unico cittadino acutissimo, se non lo fosse venuto a sapere da un uomo di Arpino.”

V, 23, 64-66
Cuius ego quaestor ignoratum ab Syracusanis, cum esse omnino negarent, saeptum undique et vestitum vepribus et dumetis indagavi sepulcrum. Tenebam enim quosdam senariolos, quos in eius monumento esse inscriptos acceperam, qui declarabant in summo sepulcro sphaeram esse positam cum cylindro. Ego autem cum omnia collustrarem oculis – est enim ad portas Agragantinas magna frequentia sepulcrorum – animum adverti columellam non multum e dumis eminentem, in qua inerat sphaerae figura er cylindri. Atque ego statim Syracusanis – erant autem principes mecum – dixi me illud ipsum arbitrari esse, quod quaererem. Immissi cum falcibus multi purgarunt et aperuerunt locum. Quo cum patefactus esset aditus, ad adversam basim accessimus. Apparebat epigramma exesis posterioribus partibus versiculorum dimidiatum fere. ita nobilissima Graeciae civitas, quondam vero etiam doctissima, sui civis unius acutissimi monumentum ignorasset, nisi ab homine Arpinate didicisset.
Philippicae, Tusculanae disputationes

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“Io attaccai discorso con una splendida ragazza di campagna che portava una camicetta di cotone molto scollata e rivelava la sommità abbronzata del suo bel seno. Era ottusa. Parlò di serate in campagna passate a fare il popcorn sotto il portico. Un tempo ciò mi avrebbe rallegrato il cuore ma poiché il cuore di lei non se ne rallegrava mentre lo diceva, capii che in esso non c'era altro che l'idea di ciò che si dovrebbe fare. «E in quale altro modo si diverte?» Cercai di tirar nel discorso le amicizie maschili e il sesso. I suoi grandi occhi scuri mi scrutarono vacui e con una specie di dolore nel sangue che risaliva a generazioni addietro per non aver fatto ciò che urgeva venisse fatto… qualsiasi cosa fosse, e tutti sanno cosa sia. «Cos'è che esige dalla vita?» Volevo prenderla e spremere da lei la risposta. Non aveva la minima idea di quel che volesse. Farfugliò di impieghi, di film, di andare da sua nonna durante l'estate, del desiderio di recarsi a New York a vedere il Roxy, di che specie di completo avrebbe indossato: qualcosa di simile a quello che portava la Pasqua scorsa, cappellino bianco, rose, scarpine pure rosa, e un soprabito di gabardine color lavanda. «Cosa fa la domenica pomeriggio?» domandai. Stava seduta sotto il portico. I suoi amici passavano in bicicletta e si fermavano a chiacchierare. Leggeva giornaletti umoristici, si sdraiava nell'amaca. «Cosa fa in una calda notte d'estate?» Sedeva sotto il portico guardava le macchine sulla strada. Lei e sua madre facevano il popcorn. «Cosa fa suo padre in una notte d'estate?» Lavora, fa il turno di notte in una fabbrica di caldaie, ha passato la sua vita intera a mantenere una donna e i suoi rampolli e senza credito né adorazione. «Cosa fa suo fratello in una notte d'estate?» Va in giro in bicicletta e passeggia davanti al chiosco delle bibite. «Cos'è che egli muore dalla voglia di fare? Cos'è che tutti noi moriamo dalla voglia di fare? Cosa vogliamo?» Non lo sapeva. Sbadigliò. Aveva sonno. Era troppo. Nessuno poteva dirlo. Nessuno avrebbe potuto dirlo mai. Tutto era finito. Aveva diciott'anni ed era estremamente adorabile, e mancata.”

On the Road

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“Se Tess avesse potuto afferrare l'importanza dell'incontro si sarebbe chiesta perché quel giorno fosse destinata a essere notata e desiderata dall'uomo sbagliato e non
dall'altro: quello giusto amato sotto tutti gli aspetti; quasi che l'umanità fosse in grado di poter sempre offrire ciò che è giusto e che è desiderato. Ma l'uomo che poteva avvicinarsi al suo ideale, tra i ragazzi conosciuti, non era per Tess che un'impressione fugace e quasi dimenticata.
Nella difettosa esecuzione del piano ben disposto dell'universo, raramente l'invito provoca l'arrivo di chi si invoca, e raramente si incontra l'uomo da amare, quando viene l'ora per l'amore. La natura non dice troppo spesso "guarda" alla povera creatura nel momento in cui il guardare potrebbe
portare a una lieta conclusione; né risponde "qui" alla carne che grida "dove?"; finché tutto questo nascondersi e cercarsi diventa un gioco penoso e senza mordente.
Potremmo chiederci se all'acme e alla sommità dell'umano progresso questi anacronismi saranno modificati da un'intuizione migliore, da un più stretto rapporto reciproco nell'ingranaggio sociale, che non ci scuota in ogni direzione, come ora; ma non si può predire un simile ideale, forse nemmeno concepirlo come possibile. Così, anche nel caso attuale, come in milioni di altri, le due parti di un perfetto insieme non si sono incontrate al momento perfetto: la controparte assente,
vagando indipendente per la terra, aspetta in crassa ottusità un tempo che giungerà sempre troppo tardi.”

Thomas Hardy (1840–1928) poeta e scrittore britannico

Tess of the D'Urbervilles