Frasi su vetro
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“Penetrando nel museo, la scorsi subito in fondo ad una sala, e bella proprio come l'avevo immaginata. Non ha la testa, le manca un braccio; mai tuttavia la forma umana mi è parsa più meravigliosa e più seducente. Non è la donna vista dal poeta, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa, come la Venere di Milo, è la donna così com'è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. È robusta, col petto colmo, l'anca possente e la gamba un po' forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede in piedi. Il braccio caduto nascondeva i seni; con la mano rimasta, solleva un drappeggio col quale copre, con gesto adorabile, i fascini più misteriosi. Tutto il corpo è fatto, concepito, inclinato per questo movimento, tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi confluisce. Questo gesto semplice e naturale, pieno di pudore e di impudicizia, che nasconde e mostra, che vela e rivela, che attrae e che fugge, sembra definire tutto l'atteggiamento della donna sulla terra. Ed il marmo è vivo. Lo si vorrebbe palpeggiare, con la certezza che cederà sotto la mano, come la carne. Le reni soprattutto sono indicibilmente animate e belle. Si segue, in tutto il suo fascino, la linea morbida e grassa della schiena femminile che va dalla nuca ai talloni, e che, nel contorno delle spalle, nelle rotondità decrescenti delle cosce e nella leggera curva del polpaccio assottigliato fino alle caviglie, rivela tutte le modulazioni della grazia umana. Un'opera d'arte appare superiore soltanto se è, nello stesso tempo, il simbolo e l'esatta espressione di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne. Dinnanzi al volto della Gioconda, ci si sente ossessionati da non so quale tentazione di amore snervante e mistico. Esistono anche donne viventi i cui occhi ci infondono quel sogno di tenerezza irrealizzabile e misteriosa. Si cerca in esse qualcos'altro dietro le apparenze, perché sembrano contenere ed esprimere un po' di quell'ideale inafferrabile. Noi lo inseguiamo senza mai raggiungerlo, dietro tutte le sorprese della bellezza che pare contenere un pensiero, nell'infinito dello sguardo il quale è semplicemente una sfumatura dell'iride, nel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un lampo di smalto, nella grazia del movimento fortuito e dell'armonia delle forme. Così i poeti, impotenti staccatori di stelle, sono sempre stati tormentati da una sete di amore mistico. L'esaltazione naturale di un animo poetico, esasperato dall'eccitazione artistica, spinge quegli esseri scelti a concepire una specie di amore nebuloso, perdutamente tenero, estatico, mai sazio, sensuale senza essere carnale, talmente delicato che un nonnulla lo fa svanire, irrealizzabile sovrumano. E questi poeti sono, forse, i soli uomini che non abbiano mai amato una donna, una vera donna in carne ossa, con le sue qualità di donna, i suoi difetti di donna, la sua mente di donna, ristretta ed affascinante, i suoi nervi di donna e la sua sconcertante femminilità. Qualsiasi creatura davanti a cui si esalta il loro sogno diventa il simbolo di un essere misterioso, ma fantastico: l'essere celebrato da quei cantori di illusioni. E la creatura vivente da loro adorata è qualcosa come la statua dipinta, immagine di un dio di fronte al quale il popolo cade in ginocchio. Ma dov'è questo dio? Qual è questo dio? In quale parte del cielo abita la sconosciuta che quei pazzi, dal primo sognatore fino all'ultimo, hanno tutti idolatrata? Non appena essi toccano una mano che risponde alla stretta, la loro anima vola via nell'invisibile sogno, lontano dalla realtà della carne. La donna che stringono, essi la trasformano, la completano, la sfigurano con la loro arte poetica. Non sono le sue labbra che baciano, bensì le labbra sognate. Non è in fondo agli occhi di lei, azzurri o neri, che si perde così il loro sguardo esaltato, è in qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. L'occhio della loro dea non è altro che un vetro attraverso cui essi cercano di vedere il paradiso dell'amore ideale. Se tuttavia alcune donne seducenti possono dare alle nostre anime una così rara illusione, altri non fanno che eccitare nelle nostre vene l'amore impetuoso che perpetua la razza. La Venere di Siracusa è la perfetta espressione della bellezza possente, sana e semplice. Questo busto stupendo, di marmo di Paros, è - dicono - La Venere Callipigia descritta da Ateneo e Lampridio, data da Eliogabalo ai siracusani. Non ha testa! E che importa? Il simbolo non è diventato più completo. È un corpo di donna che esprime tutta l'autentica poesia della carezza. Schopenhauer scrisse che la natura, volendo perpetuare la specie, ha fatto della riproduzione una trappola. La forma di marmo, vista a Siracusa, è proprio l'umana trappola intuita dall'artista antico, la donna che nasconde rivela l'incredibile mistero della vita. È una trappola? Che importa! Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della carne stupenda, della carne soffice bianca, tonda e soda e deliziosa da stringere. È divina, non perché esprima un pensiero, bensì semplicemente perché è bella.”

Guy de Maupassant (1850–1893) scrittore e drammaturgo francese

Incipit di alcune opere, Viaggio in Sicilia

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“Un giorno Febo uscì, e non tornò più. Lo aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando. […] Non appena si fece giorno, corsi alla prigione municipale dei cani. Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino. Il guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una macchina o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di giovinastri. […] Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria dell'Università, alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche. Corsi all'Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro. Nel pomeriggio tornai all'Università, entrai nella Clinica Veterinaria. […] Lungo le pareti erano allineate l'una a fianco dell'altra, come i letti di una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato, o dal petto spalancato.”

La pelle, Il vento nero

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“La fortuna è di vetro, proprio quando splende si infrange.”

Petronio Arbitro (27–66) scrittore, filosofo

traduzione di Andrea Aragosti
Il Satyricon

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“Strano uomo, Pogo. Un vago alcolismo e certe fissazioni lo facevano apparire a un osservatore superficiale, come uno strambo trentenne, signore e padrone del proprio taxi e della propria vita. Un caratterista. Una macchietta di Rorschach.
Poi improvvisamente, nel corso di una conversazione casuale, ciò che era sembrato pittoresco, folcloristico, diventava inquietante, e Pogo, da qualche misterioso recesso da qualche sacca di conoscenze acquisite forse in qualche sua precedente vita, confondeva Arquà Petrarca, nei Colli Euganei, con Arqa Tagh nella catena del Kum Lun in cui si trova l'Ulugh Muz Tag coi suoi 7.723 metri d'altezza. I suoi interlocutori sbigottivano: che Pogo conoscesse tutti i nomi delle strade di Milano, era giustificato dal provvisorio ruolo di taxista, ma che Pogo annoverasse tra le informazioni in suo possesso, insospettabili, dettagliatissime notizie sulle catene montuose della Cina occidentale, sui grandi mammiferi, sulla lavorazione del vetro, sui crostacei decapodi bracuri, e su Randit Singh, il leone del Punjab, colorava il mistero di mistero.
Pogo era antico. Forse c'era sempre stato. E poteva essere pericoloso come una creatura abissale di Lovecraft. Il cliente di Pogo gli chiedeva: "Mi potrebbe portare a Premadio. È una frazione di…" si sentiva immediatamente rispondere: "Del comune di Valdidentro. Dove c'è la centrale idroelettrica che ha, se non sbaglio, una potenza di 144 megawatt".
"È sorprendente. Come fa a saperlo?"
"Saranno cazzacci miei. Babbo di minchia."”

Origine: Il senso della frase, p. 47

“Traspar di fuor ciò ch'è di dentro accolto, | quasi per chiaro vetro ardente lume; | e, quasi in breve e picciolo volume, | ciò che detta il pensier, scritto è nel volto.”

Giovan Leone Sempronio (1603–1646) scrittore e letterato italiano

Origine: Citato in Francesco Flora, Il Flora, Storia della letteratura italiana, cinque volumi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1972, vol III, p. 315.

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“[…] Morandi guarda le bottiglie, Burri il vetro. Da medico, controlla la superficie, la pelle, i pori, il pelo, come un dermatologo dell'arte.”

Francesco Bonami (1955) critico d'arte italiano

cap. XIX, Taglia, cuci e poi bruci - Alberto Burri, p. 49
Si crede Picasso

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“Se ci ferma una pattuglia non soffiamo nel palloncino | ci danno il vetro di Murano.”

Rayden (1985) rapper e beatmaker italiano

da Nell'ignoranza, n.5
C.A.L.M.A

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“Forse il sole non passa attraverso il vetro senza romperlo?”

Curzio Malaparte (1898–1957) scrittore italiano

da Il Cristo proibito, p. 128

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“Vi prego di ricordarvi sempre che non sto mettendo su un "cabinet"; siccome non sono vanitoso, non mi preoccupo affatto di acquisire dei bei pezzi d'apparato, ma solo cose da poco, che siano di agata, di pietra, di bronzo, di terra o di vetro, poco importa, purché possano servire a ritrovare un uso, o a capire il testo di un autore antico.”

Anne-Claude-Philippe de Tubières, conte di Caylus (1692–1765) archeologo, pittore e antiquario francese

da una lettera a Paolo Maria Paciaudi; citato in I francesi e il «Voyage d'Italie»
Origine: In Charles Nisard Correspondence inédite du Comte de Caylus avec le Père Paciaudi, théatin, 1757 – 1765, 2 voll, 1877, lettera II.

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“[…] quindi salgo subito in barca per andare a salutare, dovere di scrittore, i papiri dell'Anapo.
Si attraversa il golfo da una riva all'altra si scorge, sulla sponda piatta è spoglia, la foce di un piccolissimo fiume, quasi un ruscello, in cui si inoltra il battello.,
La corrente impetuosa è difficile da risalire. A volte si rema, volte ci si serve della gaffa fa per scivolare sull'acqua che scorre veloce tra due rive coperte di fiori gialli, minuscoli e splendenti, due rive d'oro.,
Vediamo canne sgualcite dal nostro passaggio che si impegnano essi rialzano, poi, con gli steli nell'acqua, degli iris blu, di un blu intenso, sui quali volteggiano innumerevoli libellule dalle ali di vetro, madreperlacee frementi, grandi come uccelli-mosca. Adesso, sulle due scarpate che ci imprigionano, crescono cardi giganteschi con voli voli smisurati, che allacciano le piante terrestri con le camere ruscello.,
Sotto di noi, in fondo all'acqua, di una foresta di grandi erbe ondeggianti che si muovono, galleggiano, sembrano notare nella corrente che le agita. Poi il Anapo si separa dall'antico Ciane, suo affluente. Procediamo tra le righe, aiutandoci sempre con una pertica. Il ruscello serpeggia con graziosi panorami, prospettive fiorite carine. Un'isola appare infine, piena di strani arbusti. Gli steli fragili e triangolari, alti da nove a dodici piedi, portano in cima ciuffi tondi di filamenti verdi, lunghi, essi e soffici come capelli. Sembrano teste umane divenute piante, gettate nell'acqua sacra della sorgente da uno degli dei pagani che vivevano lì una volta. È il papiro antico.,
I contadini, d'altronde, chiamano questa canna: parrucca.,
Eccone altri più lontano, un intero bosco. Fremono, mormorano, si chinano, mescolano le loro fronti pelose, le urtano, paiono parlare di cose ignote lontane.,
Non è forse strano che l'arbusto venerabile, che ci portò il pensiero dei morti, che fu gusto del genio umano, abbia, sul corpo infimo di arboscello, una grossa criniera folta e fluttuante, simile a quella dei poeti?”

Guy de Maupassant (1850–1893) scrittore e drammaturgo francese

Origine: Viaggio in Sicilia, p. 135

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“La città di Praga è incisa su una coppa di vetro | incisa con un diamante. | Risuonerebbe se la toccassi: | striata d'oro, limpida e bianca.”

Nazım Hikmet (1902–1963) poeta, drammaturgo e scrittore turco

da Ore di Praga. 2 Il mattino. Praga ottimista. (1957), p. 71
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“Mi figuro che perfino chi gli sia vicino, premuto, per così dire, contro lastre di vetro, avverte queste vedute e queste intenzioni come uno che ne sia escluso; infatti le esperienze di Trakl si svolgono come in visioni riflesse ed empiono tutto il suo spazio che è inaccessibile. (Chi sarà stato mai?).”

Rainer Maria Rilke (1875–1926) scrittore, poeta e drammaturgo austriaco

da una lettera di Rilke a Ludwig von Ficker, mecenate di Trakl, 1915
Origine: Citato in Georg Trakl Poesie, introduzione, traduzione e note di Ervino Pocar, Rizzoli, Milano, 1974, p. 154.

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“Il nostro sogno urta contro il mistero come la vespa contro un vetro. Meno pietoso dell'uomo, Dio non apre mai la finestra.”

Jules Renard (1864–1910) scrittore e aforista francese

16 agosto 1906; Vergani, p. 241
Diario 1887-1910

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“Amo la naturalezza della vostra unione, la guardo con un sorriso, voi, in qualche misura, mi avete protetto da me stesso. Io non mi sono mai sentito "naturale", mi sono impegnato per esserlo, tentativi striduli, perché impegnarsi per essere naturali e già una sconfitta. Così ho accettato il modello che mi avete ritagliato nella carta velina dei vostri bisogni. Sono rimasto un ospite fisso in casa mia. Non mi sono indignato nemmeno quando in mia assenza, durante le giornate di pioggia, la cameriera ha spostato lo stenditoio con i vostri panni accanto al calorifero nel mio studio. Mi sono abituato a queste umide intrusioni senza ribellarmi. Sono rimasto sulla mia poltrona senza poter allungare troppo le gambe, ho posato il libro sulle ginocchia e mi sono fermato a guardare la vostra biancheria. Ho trovato in quei panni umidi una compagnia che forse superava quella delle vostre persone, perché in quelle trame sottili e candide io catturavo il profumo fraterno della nostalgia, di voi, certo, ma soprattutto di me stesso, della mia latitanza. Lo so, Angela, per troppi anni i miei baci, i miei abbracci sono stati goffi, stentati. Ogni volta che ti ho stretta, ho sentito il tuo corpo scosso da un fremito d'impazienza, se non addirittura di disagio. Non ti ci ritrovavi, ecco tutto. Ti è bastato sapere che c'ero, guardarmi in lontananza, come un viaggiatore appeso al finestrino di un altro treno, scialbato da un vetro. Sei una ragazza sensibile e solare, ma di colpo il tuo umore cambia, diventi rabbiosa, cieca. Ho sempre avuto il sospetto che questa ira misteriosa, dalla quale riaffiori sconcertata e un po' triste, ti sia cresciuta dentro per causa mia.
Angela, a ridosso della tua schiena incolpevole c'è una sedia vuota. Dentro di me c'è una sedia vuota. Io la guardo, guardo la spalliera, le gambe, e aspetto, e mi sembra di ascoltare qualcosa. È il rumore della speranza. Lo conosco, l'ho udito affannarsi nel fondo dei corpi e affiorare negli occhi delle miriadi di pazienti che ho avuto davanti, l'ho sentito fermarsi in stallo tra le mura della sala operatoria, ogni volta che ho mosso le mie mani per decidere il corso di una vita. So esattamente di cosa m'illudo. Nei grani di questo pavimento che ora si muovono lenti come fuliggine, come ombre morenti, m'illudo che quella sedia vuota si riempia anche per un solo lampo di una donna, non del suo corpo, no, ma della sua pietà. Vedo due scarpe décolletées color vino, due gambe senza calze, una fronte troppo alta. E lei è già davanti a me per ricordarmi che sono un untore, un uomo che segna senza cautela la fronte di chi ama. Tu non la conosci, è passata nella mia vita quando ancora non c'eri, è passata ma ha lasciato un'impronta fossile. Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata, dove il craniotomo scassinerà la tua testa, per raccontarti di questa donna.”

Origine: Non ti muovere, pp. 21-23

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“E' il successo che a volte può trasformarti in un malvestito solitario senzatetto che si rispecchia nel lucido vetro della lussuosa vetrina di uno dei più grandi e famosi negozi di costosissimi abiti alla moda in un inverno newyorkese.”

Carlo Zannetti (1960) chitarrista, cantautore e scrittore italiano

Variante: E’ il successo che a volte può trasformarti in un malvestito solitario senzatetto che si rispecchia nel lucido vetro della lussuosa vetrina di uno dei più grandi e famosi negozi di costosissimi abiti alla moda in un inverno newyorkese.
Origine: Da Whitney Houston,il canto del cigno https://spettacolomusicasport.com/2017/07/15/whitney-houston-il-canto-del-cigno/, SpettacoloMusicaSport.com, 15 luglio 2017.

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“Quasi tutto si può imparare | e non si sa dove finisce il vetro | e cosa c’è nascosto in fondo al mare. | Potrebbe dircelo soltanto un pesce.”

Filippo Gatti (1970) cantautore, musicista e produttore discografico italiano

da Il Maestro e Margherita, n.6
La testa e il cuore

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“Novembre

Timido come un bambino
il sole sbircia
dietro alle nuvole
che si prendono per mano come sorelle amiche,
a formare un'unica
lastra di marmo grigio perla
che si specchia sul volto pallido e silenzioso
del lago adagiato ai piedi
di questa collina
dalle tinte aranciate
nei suoi rossori più intensi, mentre salutano il nuovo giorno che nasce,
quando calmo se ne sta
nella sua eterna posa
in quel sonno delle prime ore dalle tenue luci di questo mattino. Lui, indeciso
se sorridermi e scaldarmi
coi sui luminosi raggi
o imbronciarsi versando
le sue lacrime capricciose
sul mio capo, il mio sole oggi non sa imporsi beffeggiandosi indisturbato del mio intimo! E imbroglione è quel vento fresco
e scherzoso che si innalza
avanzando da lontano
a risvegliare le folte chiome degli alberi che ondeggiano distratte come una danza spasmodica a sciogliere
le loro foglie rivelandole bronzate nel fruscio
della loro inconfondibile voce, un dialogo comprensibile
per l'anima pregna
di sensibilità accentuata
nella meditazione di un cuor profondo che sa percepire quei segreti
dell'essere spirituale
della natura del mondo, raccolto nella preghiera protesa all'ascolto,
senza un rosario in mano.
E i fili d'erba del mio giardino
che i miei occhi intravedono
non hanno più quel peculiare profumo dei loro fiori
ad adornare quei loro movimenti sereni ad allietare l'anima mia nei giorni
che verranno, e l'eco
del cuculo che risuona nell'aria è lontano, è altrove,
si farà attendere ancora,
dopo il freddo,
dopo la pioggia,
dopo la neve,
dopo i camini accesi con la sua legna e le caldarroste,
e le corte giornate intorpidite dal cattivo suo umore,
dopo le serate chiuse in casa in compagnia e non,
solo allora lo sentirò cantare al cuore riportando la primavera nelle mie narici. Ricordavo poi trasognante
in frammenti di nostalgia
la mia antica betulla triste
e gialla nella caduca
dei suoi innumerevoli sorrisi quando accarezzava lieve
le mie gote di adolescente,
baci autunnali!
Quella che regnava una volta nell'altra mia casa,
quella di una volta. Formidabile nel suo abito color giallo brillante mesto
a oro vivido in quegli autunni che si ripetevano nel ciclo del tempo, e questo è uno
di quelli! Come starà!?
Il mio sorriso è uno scolpito malinconico nel segreto ricordo del mio essere
nel volo della reminiscenza,
la rivedrò serena nel sogno agghindare la sua criniera di verde vellutato a primavera,
e sarà ancora lontana,
dovrà aspettare perché
prima dovrà indossare
il suo solito lucido argento, per poi essere grigio
con lenticelle orizzontali,
lei mia confidente che mi
ha visto piangere, gioire,
e aver mal di pancia!
Nel sole, nel vento e sotto
la pioggia del giorno
e della notte, ripenso a lei
e penso che è solo novembre, dietro la finestra ove il suo vetro non riflette l'espressione dei miei sogni
e ricordi, ma solo il mio volto perso e condizionando
dai rivoli del tempo, forse.
La mia dolce micia dal pelo lungo e bianco mi fa le fusa,
e come per incanto
mi risveglio con lei in braccio in un appagante sussulto,
e fiduciosa guardo il presente nella stanza della mia casa, tra le mie cose e i miei affetti, confidandole a gran voce guardando nell'azzurro
dei suoi occhietti,
che è solo novembre,
nel muso lungo plumbeo
del sole che oggi
ha tutta l'aria di non
voler splendere nella
sua bella posa lì in alto
oltre il coro delle nubi
in quel rombo di tuono
che ha appena emanato.
Or piove a dirotto
e sono solo le otto,
ma in cuor mio
sono serena dentro!”