Frasi su buio
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“[…] di essere qui, di essere nel mondo | con paura di buio e di profondo.”

Rodolfo Quadrelli (1939–1984) Critico letterario, poeta e saggista

Commedia

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“Costei è il nero fatto carne viva | per l'alta ebbrezza nostra ed il tormento; | certo costei dal buio abbracciamento | degli uragani e della notte usciva. || Certo nata è costei, tigre lasciva, | cupa tigre dal passo ambiguo e lento, | quando, o Trinacria, te comprime il vento | d'Africa e strugge la gran vampa estiva. || Qual nome darti, o audace imperio, o muto | fascino delle chiome atre? Chi sei | tu, fatta d'ombra e fatta di velluto || come una bara? Quale a saziarti | basterà, o tigre, fra i rei, | o implacabile rea, quale a placarti?”

Giovanni Camerana (1845–1905) poeta, critico d'arte e magistrato italiano

Tenebre, in Poesie, a cura di G. Finzi, Einaudi, Torino, 1968.
Origine: Citato in A. Tocco, G. Domestico, A. Maiorano e A. Palmieri, Parole nel tempo, [Testi, contesti, generi e percorsi attraverso la letteratura italiana, 2B, La letteratura dell'Ottocento], Loffredo Editore, Napoli, p. 1269. ISBN 978887564209-9

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“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!"”

Origine: Lessico famigliare, p. 20

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“Quindi, se da solo non puoi figliare e ti serve un terzo incomodo per fare i comodi tuoi, è meglio tu non debba. […] gli appagati e trionfanti papà, diciamo pure contronatura e contro ogni buonsenso, di questi bambini con una madre senza come possono essere poi tanto appagati? Come possono guardare queste meravigliose creature che gli gattonano attorno e danno ai loro contorti geni, nonché a patrimoni finanziari da non disperdere certo in beneficenza qui e subito, una cinica convinzione di totale appartenenza al mondo sulla pelle di quella anonima madre, snaturata ma senza ignominia, travolta nel suo dolore di eterna bambina violentata da ultimo anche con le migliori intenzioni e senza più un grido per farsi sentire da quel buio rimosso non solo da lei ma anche da chi l'ha sfruttato? Come possono questi padri surrogati di madri surrogate guardare questi figli amatissimi e doppiamente idolatrati quali premi di una hybris vittoriosa senza provare ribrezzo per se stessi al pensiero di quella mammifera incosciente, dolente, abbandonata a se stessa che glieli ha forniti e si è tolta di mezzo, anzi, che è stata di fatto tolta di mezzo magari con un bonifico conclusivo a sigillo di una lettera di credito iniziale? Di un credito di sangue mai più esigibile, estinto – come l'utero che l'ha pompato per nove mesi come se pompasse la ruota sgonfia di una bicicletta non sua?”

Aldo Busi (1948) scrittore italiano

Origine: Da Fecondazione e gay, quel debito da ripagare alle madri surrogate http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_17/quel-debito-ripagare-madri-surrogate-850e1700-cc75-11e4-a3cb-3e7ff6d232c1.shtml?refresh_ce-cp, Corriere.it, 17 marzo 2015.

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“Intreccio d'ombre e di rami | tutta una cosa col cielo! | Tre cornacchie che hanno il nido in un pino | strillano d'allegria per così poco. | C'è un sospiro d'aria appena, | una dolce calma di sole calato | e nel cielo liscio una stella | che ammicca a un barchetto dorato. | Ecco la navicella | che scivola a fil di cielo | portando nell'aria serena | i sogni dei bambini | che intanto stanno a cena. | Che odore d'infanzia e di favole! || Questo è il mattino | color del mio brivido. | Ed io con parole innocenti | vado come palpando | i fuggitivi contatti di questi momenti col cielo: | sono altrettanti saluti d'amore | al bel clima di felicità silenziosa | specchiata nel giro del nostro orizzonte. || Quando spunta l'erba novella sul prato, | una resistenza è spezzata in forma di luce, | e assistiamo alla gloria | dei lavorii già nascosti sotterra | in forza di luminosi aspetti | che il buio gelosamente protesse | fino al momento che divenuti polpa | il sole vi urta sopra | con quel rimbalzo di splendore | che noi chiamiamo esistenza. || Queste minute creature | che ieri erano fuori del nostro raggio, | possiamo toccarle al vivo | come una nostra affezione… | Tieniti muta, | anima nostra, | nel tuo vibrante solstizio, | giacché un abbraccio tacito e immenso, | un abbraccio al mondo | è l'ultimo gesto appreso dal tuo dolore | quando hai scoperto che la tua pena | è soltanto una pena d'amore.)”

Arturo Onofri (1885–1928) poeta e scrittore italiano

Origine: Citato in De Marchi e Palanza, Protagonisti della civiltà letteraria nella critica, Antologia della critica Letteraria dalle Origini ai nostri giorni, Casa Editrice Federico & Ardia, Napoli, 1974, p. 750.

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“[…] facciamo lentamente il buio cammino del nostro mondo, la strada della pazienza.”

Stefan Zweig (1881–1942) scrittore, giornalista e drammaturgo austriaco

da Appello alla pazienza, (1920), p. 67
La patria comune del cuore

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“[Su Fiorenzo Magni] Si è spento un grande faro che illuminava la via maestra. Ma non siamo rimasti al buio. A indicare la strada giusta ci sono i suoi esempi di onestà, intelligenza, fermezza. Anche stavolta è stato imprevedibile, come nelle corse. Era dotato di grande forza, fisica e morale, sapeva credere in se stesso. Noi viviamo del suo esempio, delle sue invenzioni che hanno salvato lo sport.”

Alfredo Martini (1921–2014) ciclista su strada e dirigente sportivo italiano

Origine: Citato in Luca Gialanella, Monza, ultimi applausi per Magni. Martini: "Sii sereno in Paradiso" http://www.gazzetta.it/Ciclismo/20-10-2012/monza-ultimi-applausi-magni-martini-sii-sereno-paradiso-912965526423.shtml, Gazzetta.it, 20 ottobre 2012.

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“Nei mandala è sintetizzata la verità dell'universo. È un'esperienza totalizzante, dove convergono micro e macrocosmi, luce e buio. Il mio piccolo Io viene così sostenuto, nel flusso della vita, dal centro di queste energie primordiali, fa tutt'uno con esse. Dipingere, per me, è come pregare.”

Josaku Maeda (1926–2007)

Origine: Dal saggio introduttivo di Donatella Trotta a Shundō Aoyama, La voce del fiume, [Parabole e aforismi di saggezza], a cura di Donatella Trotta, R.C.S. libri, I classici dello spirito, Milano, 1997, p. 74.

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“Un buio assoluto totale, simile a quello che avrà assillato l'ignoto autore dei bisonti volanti ad Altamira quando, in qualche notte senza luna, avrà messo il naso fuori della sua caverna… solo chi ha visto quel buio, presumibilmente (intendo quel vuoto assoluto di forme, di spiragli, di chiarori) può davvero capire il Disegno.”

Gianni de Luca (1927–1991) fumettista e pittore italiano

citato in Il commissario Spada, Black Velvet Editrice, Edizioni BD, 3° volume; in Renato Pallavicini, l'Unità, 2008, Le geometrie della mente di De Luca e Escher http://conversazionisulfumetto.wordpress.com/2013/05/15/le-geometrie-della-mente-di-de-luca-e-escher/
Origine: Vedi Grotte di Altamira.

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“Le tenebre mi fluttuavano intorno come un temporale e mi avvolsero, e tutto si fece buio. La pace è meravigliosa.”

Richard S. Prather (1921–2007) scrittore statunitense

Origine: Non passa più, p. 27

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“[L'autodichia è] un angolo buio dell'ordinamento interno delle Camere.”

Enrico Buemi (1947) politico italiano

Origine: Citato in Parlamento. Buemi: L'autodichia va abolita http://www.partitosocialista.it/index.php/ufficio-elettorale/parlamento-buemi-l-autodichia-va-abolita#.VZoHvlJobCR, PartitoSocialista.it.

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“[Descrivendo le condizioni dei mattatoi di Chicago] Tutte le volte che avanzava carne troppo guasta da poter essere utilizzata altrimenti, era uso comune inscatolarla o trasformarla in salsicce… Non c'era la minima attenzione per quel che veniva tritato per essere insaccato come salsiccia: dall'Europa, tornavano indietro vecchie salsicce rifiutate da quei paesi, ormai bianchicce e muffite, che – trattate con borace e glicerina, e rovesciate nei recipienti – venivano riciclate per finire sulla tavola di migliaia di famiglie americane. S'usava la carne caduta per terra, su quel pavimento pieno di sporcizia e segatura, su cui i lavoratori camminavano e sputavano miliardi di bacilli di tubercolosi; s'usava la carne ammucchiata negli stanzoni, sulla quale non aveva smesso un attimo di gocciolare l'acqua dal soffitto pieno di crepe, su cui centinaia di topi non avevano smesso un attimo di correre. Era troppo buio per riuscire a vedere bene, in quegli stanzoni, ma bastava passare una mano sui mucchi di carne per raccogliere manciate d'escrementi secchi di topo. I topi erano una grossa scocciatura e i conservieri avevano dato disposizione perché venissero sparsi bocconi avvelenati: gli animali li mangiavano, morivano e poi le carcasse dei topi, il pane avvelenato e la carne finivano tutti insieme nei recipienti per la triturazione.”

Upton Sinclair (1878–1968) scrittore statunitense

Origine: Da La giungla; citato in Jeremy Rifkin, Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne, traduzione di Paolo Canton, Oscar Mondadori, Milano, 2014, cap. XX https://books.google.it/books?id=aAakAwAAQBAJ&pg=PT137.

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“Procedo nella vita come una talpa. Di tanto in tanto, faccio cascare un po' di terra. Una breve schiarita. Poi, rientro nel buio.”

Jules Renard (1864–1910) scrittore e aforista francese

10 maggio 1900; Vergani, p. 168
Diario 1887-1910

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“So che stai leggendo tardi questa
poesia, prima di lasciare l' ufficio
con l'abbagliante lampada gialla e la finestra nel buio
nell'apatia di un fabbricato sbiadito nella quiete
dopo l'ora di traffico. So che stai leggendo questa poesia
in piedi nella libreria lontano dall'oceano
in un giorno grigio di primavera, fiocchi sparsi di neve
spinti attraverso enormi spazi di pianure intorno a te.
So che stai leggendo questa poesia
in una stanza dove tanto è accaduto che non puoi sopportare
dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti
e la valigia aperta parla di fughe
ma non puoi ancora partire. So che stai leggendo questa poesia
mentre il treno della metropolitana perde velocità e prima di salire
le scale
verso un nuovo tipo d'amore
che la vita non ti ha mai concesso.
So che stai leggendo questa poesia alla luce
del televisore dove immagini mute saltano e scivolano
mentre tu attendi le telenotizie sull'intifada.
So che stai leggendo questa poesia in una sala d'attesa
Di occhi che s'incontrano sì e no, d'identità con estranei.
So che stai leggendo questa poesia sotto la luce al neon
nel tedio e nella stanchezza dei giovani fuori gioco,
che si mettono fuori gioco quando sono ancora troppo giovani. So
che stai leggendo questa poesia con una vista non più buona, le spesse lenti
ingigantiscono queste lettere oltre ogni significato però
continui a leggere perché anche l'alfabeto è prezioso.
So che stai leggendo questa poesia mentre vai e vieni accanto alla stufa
scaldando il latte, sulla spalla un bambino che piange, un libro
nella mano
poiché la vita è breve e anche tu hai sete.
So che stai leggendo questa poesia non scritta nella tua lingua
indovinando alcune parole mentre altre continui a leggerle
e voglio sapere quali siano queste parole.
So che stai leggendo questa poesia mentre ascolti qualcosa,
diviso fra rabbia e speranza
ricominciando a fare di nuovo il lavoro che non puoi rifiutare.
So che stai leggendo questa poesia perché non rimane
nient'altro da leggere
là dove sei atterrato, completamente nudo.”

Adrienne Rich (1929–2012) poetessa e saggista statunitense

An Atlas of the Difficult World

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“Ieri sera un grosso ratto mi ha attraversato la strada in Fifty-seventh Street. È uscito da sotto lo steccato di un terreno vuoto vicino a Bendel's, ha aspettato una pausa nel traffico, poi è filato verso il lato nord della strada, si è fermato per un po' sul marciapiede buio ed è scomparso. Era il mio secondo ratto della settimana. Il primo è stato in un ristorante greco con le finestre dai davanzali all'altezza dei fianchi. Il ratto è sfrecciato lungo i davanzali puntando dritto verso di me, poi mi ha superata.
«L'hai visto» ha detto Will, sorseggiando la sua birra.
«Un grosso topo» ho risposto. «Ormai anche nei buoni alberghi si trova qualche topino, nel bar o nell'atrio». L'ultima volta che avevo visto Will era stato a Oakland; prima ancora, in Louisiana. Lavorava nel settore legale. Poi qualcosa, forse un senso di allarme ai margini del mio campo visivo, è spuntato da sinistra, correndo verso la mia faccia. Ho sentito l'acciottolio della forchetta.
«Stavi andando alla grande» ha detto Will, ghignando, «finché non hai perso la calma».
Il secondo ratto, naturalmente, poteva anche essere il primo che si era spostato più a nord, nel qual caso o il ratto mi segue, oppure fa i miei stessi tragitti e orari. Tuttavia sono convinta che la sanità mentale sia la scelta etica più profonda del nostro tempo. Due ratti, dunque. I tassisti non sentono neppure le indicazioni attraverso quei nuovi divisori, che a me non sembrano davvero antiproiettile, anche se, naturalmente, non ho mai verificato. Antirumore. Le dita s'incastrano, questo è certo, nei nuovi recipienti per i soldi. Be', qualcuno ha venduto i divisori. Qualcuno li ha comprati. Disonesti, chiaramente. Sembra che non esista uno spirito dei tempi. Stavo per alzarmi assurdamente presto, quando Will, che si butta nel sonno con una violenza pari alla sua mitezza da sveglio, mi ha detto: «Stai qui. è normale». Invece ho trovato un taxi per tornare a casa, sotto la pioggia, davanti a un'armeria.”

Renata Adler (1938) scrittore, critico cinematografico, giornalista

Mai ci eravamo annoiati

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“Il principio è sempre buio.”

The Neverending Story

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“«Una volta» disse mia madre «non esisteva il buio totale. Persino di notte, la luna era luminosa quanto il sole. L’unica differenza stava nella luce, che era blu. Vedevi tutto per chilometri e chilometri e non faceva mai freddo. Si chiamava crepuscolo».
«Perché crepuscolo?».
«Perché è una parola in codice per cielo blu». Mi ero ricordata che si diceva codice blu quando moriva qualcuno, e anche questo aveva a che fare con il cielo.
Un giorno Dio aveva chiamato il pipistrello per dargli una cesta da portare sulla Luna. La cesta era piena di buio, ma Dio non aveva detto al pipistrello cos’era, solo “Portala sulla luna, poi quando torni ti spiego tutto”. Così il pipistrello parte in cerca della luna con la cesta in groppa. Mentre vola verso il cielo, la luna lo vede e si nasconde dietro una nuvola. Il pipistrello è stanco, e si ferma a riposare. Depone la cesta e va in cerca di qualcosa da mangiare. Mentre è a caccia, arrivano altri animali (più che altro lupi e cani, e anche un tasso con una zampa rotta). Pensando che nella cesta ci sia del cibo, gli animali alzano il coperchio, ma dentro c’è solo il buio, e loro non l’hanno mai visto. I cani e i lupi cercano di tirarlo fuori e di giocarci, ma gli guizza tra i denti e scivola via. In quel momento torna il pipistrello, apre la cesta e la trova vuota. Gli altri animali spariscono nella notte e il pipistrello si alza in volo per andare a riprendere il buio. Lo vede dappertutto, ma non riesce proprio a infilarlo di nuovo nella cesta. Per questo il pipistrello ancora oggi dorme tutto il giorno e vola di notte. Cerca sempre di riprendere il buio.”

Jenny Offill (1968)

Le cose che restano

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“Pochi uccelli Stephen preferiva ai succiacapre, ma non era stato il loro canto a farlo scendere dal letto. Rimase fermo, appoggiato alla ringhiera, e poco dopo Jack Aubrey, in un padiglione presso il campo di bocce, ricominciò a suonare con grande dolcezza nel buio, improvvisando solo per sé, fantasticando sul suo violino con una maestria che Stephen non aveva mai conosciuto in lui, sebbene avessero suonato insieme per tanti anni. […] In effetti suonava meglio di Stephen, e ora che stava usando il suo prezioso Guarnieri invece del robusto strumento adatto al mare, la differenza era ancora più marcata: ma il Guarnieri non bastava a spiegarla del tutto, assolutamente no. Quando suonavano insieme, Jack nascondeva la propria eccellenza, mantenendosi al mediocre livello di Stephen […]; mentre rifletteva su questo, Maturin si rese conto a un tratto che era sempre stato così: Jack, indipendentemente dalle condizioni di Stephen, detestava mettersi in mostra. Ma in quel momento, in quella notte tiepida, ora che non vi era nessuno da sostenere moralmente, cui dare il proprio appoggio, nessuno che potesse criticare il suo virtuosismo, Jack poteva lasciarsi andare completamente; e mentre la musica grave e delicata continuava a diffondersi, Stephen si stupì una volta di più dell'apparente contraddizione tra il grande e grosso ufficiale di marina, florido e allegro […] e la musica pensosa, complessa che quello stesso uomo stava ora creando. Una musica che contrastava immensamente con il suo limitato vocabolario, un vocabolario che lo rendeva talvolta quasi incapace di esprimersi.”

The Commodore

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“BENVOLIO - Tuo padre, sì… Ma quale interna pena fa tanto lunghe
l’ore di Romeo?
ROMEO - La pena di non posseder per sé la cosa che gliele farebbe brevi.
==========

È la crudele legge dell’amore. Già le pene del mio pesano troppo
sul mio cuore, e tu vuoi ch’esso trabocchi coll’aggiungervi il peso
delle tue: giacché quest’affettuosa tua premura altro non fa che
aggiunger nuova ambascia a quella che m’opprime, ch’è già troppa.
L’amore è vaporosa nebbiolina formata dai sospiri; se si dissolve,
è fuoco che sfavilla scintillando negli occhi degli amanti; s’è
ostacolato, è un mare alimentato dalle lacrime degli stessi amanti.
Che altro è più? Una follia segreta, un’acritudine che mozza il
fiato, una dolcezza che ti tira su.
==========
Oh, ch’ella insegna perfino alle torce come splendere di più viva
luce! Par che sul buio volto della notte ella brilli come una gemma
rara pendente dall’orecchio d’una Etiope. Bellezza troppo ricca per
usarne, troppo cara e preziosa per la terra! Ella spicca fra queste
sue compagne come spicca una nivea colomba in mezzo ad uno stormo
di cornacchie. Finito questo ballo, osserverò dove s’andrà a posare
e, toccando la sua, farò beata questa mia rozza mano… Ha mai amato
il mio cuore finora?… Se dice sì, occhi miei, sbugiardatelo,
perch’io non ho mai visto vera beltà prima di questa notte.
==========

Codesti subitanei piacimenti hanno altrettanta subitanea fine, e
come fuoco o polvere da sparo s’estinguono nel lor trionfo stesso,
si consumano al loro primo bacio. Miele più dolce si fa più
stucchevole proprio per l’eccessiva sua dolcezza, e toglie la sua
voglia al primo assaggio. Perciò sii moderato nell’amare. L’amor
che vuol durare fa così. Chi ha fretta arriva sempre troppo tardi,
come chi s’incammina troppo adagio.”

Romeo and Juliet

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“Finché l’uomo vive nel suo ambiente e in condizioni normali, gli elementi del curriculum vitae rappresentano per lui periodi importanti e svolte significative della sua vita. Ma appena il caso o il lavoro o le malattie lo separano dagli altri e lo isolano, questi elementi di colpo cominciano a scolorirsi, si inaridiscono e si decompongono con incredibile rapidità, come una maschera di cartone o di lacca senza vita, usata una volta sola. Sotto questa maschera comincia a intravedersi un’altra vita, conosciuta solo a noi, ossia la “vera” storia del nostro spirito e del nostro corpo, che non è scritta da nessuna parte, di cui nessuno suppone l’esistenza, una storia che ha molto poco a che fare con i nostri successi in società, ma che è, per noi, per la nostra felicità o infelicità, l’unica valida e la sola davvero importante.
Sperduto in quel luogo selvaggio, durante le lunghe notti, quando tutti i rumori erano cessati, Daville pensava alla sua vita passata come a una lunga serie di progetti audaci e di scoraggiamenti noti a lui solo, di lotte, di atti eroici, di fortune, di successi e di crolli, di disgrazie, di contraddizioni, di sacrifici inutili e di vani compromessi. Nelle tenebre e nel silenzio di quella città che ancora non aveva visto ma in cui lo attendevano, senza dubbio, preoccupazioni o difficoltà, sembrava che nulla al mondo si potesse risolvere né conciliare. In certi momenti gli pareva che per vivere fossero necessari sforzi enormi e per ogni sforzo una sproporzionata dose di coraggio. E, visto nel buio di quelle notti, ogni sforzo gli sembrava infinito. Per non fermarsi e rinunciare, l’uomo inganna se stesso, sostituendo gli obiettivi che non è riuscito a raggiungere con altri, che ugualmente non raggiungerà; ma le nuove imprese e i nuovi tentativi lo obbligheranno a cercare dentro di sé altre energie e maggiore coraggio. Così l’uomo si autoinganna e col passare del tempo diviene sempre più e senza speranza debitore verso se stesso e verso tutto quello che lo circonda.”

Ivo Andrič (1892–1975) scrittore e diplomatico jugoslavo

Travnicka Kronika: Hrvatske Knjige

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“Vorrei solo poter restare qui tutta la notte e continuare a scrivere. Scrivere mi fa bene. Lo sento. Anche quando scrivo cose tristi, qualcosa in me si tranquillizza, sento di avere uno scopo.

Voglio rimanere qui e raccontare le cose più semplici. Descrivere la foglia che è appena caduta. O la catasta di sedie in veranda. O le falene attratte dalla lampada. E raccontare ciò che avviene durante la notte finché il buio si tramuta in luce, fino ai cambiamenti di colore. Potrei rimanere qui seduta per giorni e notti a descrivere ogni stelo d'erba, ogni fiore, i sassi del muretto, le pigne. Solo dopo, quando mi sentirò pronta, passerò a scrivere di me. Del mio corpo, per esempio. Comincerò da lui, da ciò che è tangibile. Ma anche con lui partirò da lontano, dalle dita dei piedi, per avvicinarmi piano piano. Descriverò ogni sua parte, ne annoterò le sensazioni, quelle di un tempo e quelle attuali. I ricordi della caviglia, per esempio, o della guancia, o del collo. Perché no? Attraverso le carezze, i baci e le cicatrici. Mantenermi viva con la scrittura. Ci vorrà un sacco di tempo ma ne ho molto a mia disposizione. La vita è lunga e voglio raccontare di me stessa, raccontare quello che probabilmente nessuno mi racconterà mai. La mia storia. Senza aggiunte, ma anche senza detrazioni. Scrivere senza pretendere nulla. Da nessuno. Scrivere solo la mia voce.”

David Grossman (1954) scrittore e saggista israeliano

Be My Knife