Frasi su petto
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“Vedi com'è la vita? C'è gente che va in chiesa, prega, si batte la mano sul petto e poi si comporta in modo vergognoso.”

Candido Cannavò (1930–2009) giornalista italiano

da E li chiamano disabili
E li chiamano disabili

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“Passò molto tempo. Gallardo non sapeva con certezza se avesse dormito o no. Tutto a un tratto risuonò la voce di doña Sol a scuoterlo da quella pesante somnnolenza. Aveva lasciato da parte la sigaretta dalle azzurre spirali e, con voce sommessa dava risalto alle parole, imprimendovi appassionati tremori, cantava accompagnandosi al piano.
Il torero tese gli orecchi per capire qualcosa... Neanche una parola. Erano canzoni straniere. «Accidenti! Perché non un tango o una soleà…? E poi si vorrebbe che un cristiano non si addormentasse!»
Doña Sol posava le dita sui tasti, mentre i suoi occhi vagavano in alto, gettando indietro il capo, mentre il petto solido le tremava con i sospiri musicali.
Era la preghiera di Elsa, il lamento della bionda vergine che pensava all'uomo forte, il bel guerriero invincibile per gli uomini, dolce e timido con le donne.
Pareva sognare mentre cantava, imprimendo alle parole fremiti passionali e gli occhi le si riempivano di lacrime di commozione. L'uomo semplice e forte, il guerriero, forse era lì, dietro di lei… Perché no?
Non aveva l'aspetto leggendario dell'altro, era rude e goffo, ma lei vedeva ancora, con la lucidità di un saldo ricordo, la gagliardia con cui pochi giorni prima era corso in suo aiuto, la sorridente fiducia con cui aveva lottato contro un animale feroce, così come gli eroi wagneriani lottavano contro draghi terrificanti. Sì, era lui il suo guerriero.
E, scossa dai talloni fino alla radice dei capelli da un timore voluttuoso, dandosi anticipatamente per vinta, credeva di intuire il dolce pericolo che si avvicinava alle sue spalle. Vedeva l'eroe, il paladino levarsi lentamente dal divano con quei suoi occhi arabi fissi su di lei; ne sentiva i cauti passi, percepiva le mani di lui posarsi sulle sue spalle; poi un bacio infuocato sulla nuca, marchio di passione che la segnava per sempre, facendola sua schiava… Ma la romanza terminò senza che accadesse niente, senza sentire sulla schiena altra pressione che non fosse quella dei suoi fremiti di timoroso desiderio.”

Vicente Blasco Ibáñez (1867–1928) scrittore, sceneggiatore e regista spagnolo

Origine: Sangue e arena, pp. 115-116

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“Penetrando nel museo, la scorsi subito in fondo ad una sala, e bella proprio come l'avevo immaginata. Non ha la testa, le manca un braccio; mai tuttavia la forma umana mi è parsa più meravigliosa e più seducente. Non è la donna vista dal poeta, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa, come la Venere di Milo, è la donna così com'è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. È robusta, col petto colmo, l'anca possente e la gamba un po' forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede in piedi. Il braccio caduto nascondeva i seni; con la mano rimasta, solleva un drappeggio col quale copre, con gesto adorabile, i fascini più misteriosi. Tutto il corpo è fatto, concepito, inclinato per questo movimento, tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi confluisce. Questo gesto semplice e naturale, pieno di pudore e di impudicizia, che nasconde e mostra, che vela e rivela, che attrae e che fugge, sembra definire tutto l'atteggiamento della donna sulla terra. Ed il marmo è vivo. Lo si vorrebbe palpeggiare, con la certezza che cederà sotto la mano, come la carne. Le reni soprattutto sono indicibilmente animate e belle. Si segue, in tutto il suo fascino, la linea morbida e grassa della schiena femminile che va dalla nuca ai talloni, e che, nel contorno delle spalle, nelle rotondità decrescenti delle cosce e nella leggera curva del polpaccio assottigliato fino alle caviglie, rivela tutte le modulazioni della grazia umana. Un'opera d'arte appare superiore soltanto se è, nello stesso tempo, il simbolo e l'esatta espressione di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne. Dinnanzi al volto della Gioconda, ci si sente ossessionati da non so quale tentazione di amore snervante e mistico. Esistono anche donne viventi i cui occhi ci infondono quel sogno di tenerezza irrealizzabile e misteriosa. Si cerca in esse qualcos'altro dietro le apparenze, perché sembrano contenere ed esprimere un po' di quell'ideale inafferrabile. Noi lo inseguiamo senza mai raggiungerlo, dietro tutte le sorprese della bellezza che pare contenere un pensiero, nell'infinito dello sguardo il quale è semplicemente una sfumatura dell'iride, nel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un lampo di smalto, nella grazia del movimento fortuito e dell'armonia delle forme. Così i poeti, impotenti staccatori di stelle, sono sempre stati tormentati da una sete di amore mistico. L'esaltazione naturale di un animo poetico, esasperato dall'eccitazione artistica, spinge quegli esseri scelti a concepire una specie di amore nebuloso, perdutamente tenero, estatico, mai sazio, sensuale senza essere carnale, talmente delicato che un nonnulla lo fa svanire, irrealizzabile sovrumano. E questi poeti sono, forse, i soli uomini che non abbiano mai amato una donna, una vera donna in carne ossa, con le sue qualità di donna, i suoi difetti di donna, la sua mente di donna, ristretta ed affascinante, i suoi nervi di donna e la sua sconcertante femminilità. Qualsiasi creatura davanti a cui si esalta il loro sogno diventa il simbolo di un essere misterioso, ma fantastico: l'essere celebrato da quei cantori di illusioni. E la creatura vivente da loro adorata è qualcosa come la statua dipinta, immagine di un dio di fronte al quale il popolo cade in ginocchio. Ma dov'è questo dio? Qual è questo dio? In quale parte del cielo abita la sconosciuta che quei pazzi, dal primo sognatore fino all'ultimo, hanno tutti idolatrata? Non appena essi toccano una mano che risponde alla stretta, la loro anima vola via nell'invisibile sogno, lontano dalla realtà della carne. La donna che stringono, essi la trasformano, la completano, la sfigurano con la loro arte poetica. Non sono le sue labbra che baciano, bensì le labbra sognate. Non è in fondo agli occhi di lei, azzurri o neri, che si perde così il loro sguardo esaltato, è in qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. L'occhio della loro dea non è altro che un vetro attraverso cui essi cercano di vedere il paradiso dell'amore ideale. Se tuttavia alcune donne seducenti possono dare alle nostre anime una così rara illusione, altri non fanno che eccitare nelle nostre vene l'amore impetuoso che perpetua la razza. La Venere di Siracusa è la perfetta espressione della bellezza possente, sana e semplice. Questo busto stupendo, di marmo di Paros, è - dicono - La Venere Callipigia descritta da Ateneo e Lampridio, data da Eliogabalo ai siracusani. Non ha testa! E che importa? Il simbolo non è diventato più completo. È un corpo di donna che esprime tutta l'autentica poesia della carezza. Schopenhauer scrisse che la natura, volendo perpetuare la specie, ha fatto della riproduzione una trappola. La forma di marmo, vista a Siracusa, è proprio l'umana trappola intuita dall'artista antico, la donna che nasconde rivela l'incredibile mistero della vita. È una trappola? Che importa! Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della carne stupenda, della carne soffice bianca, tonda e soda e deliziosa da stringere. È divina, non perché esprima un pensiero, bensì semplicemente perché è bella.”

Guy de Maupassant (1850–1893) scrittore e drammaturgo francese

Incipit di alcune opere, Viaggio in Sicilia

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“Pur ieri beveva la terra, | con sete di giovane ardore, | la pioggia d'autunno: una sposa | che trepida attende l'amore. | Ma or che, d'aiole dorate | fiorita la candida vesta, | per lei primavera è venuta, | somiglia a una sposa ridesta | che rida sui pinti tappeti, | che goda dei lini preziosi, | che al collo ammirando rinnovi | di gemme i monili vezzosi. | La gonna distende vivace | di occhi gemmanti variata: | qui rossi, là verdi, là gialli | la bocca le suggono ambrata. | Da dove i colori e la luce | commisti ha rapiti e i tepori? | Scintillano gocce di stelle, | raggianti, cangianti fulgori, | Scendiamo col vin nel verziere! | Ei brilla nel calice schietto, | in mano riluce e scintilla, | rifulge e fiammeggia nel petto. | È il sole che sprizza dai vetri! | L'acchiappino svelti i bicchieri! | Del bosco pei freschi meandri | perdiamoci e i verdi sentieri! | Andiam! ci! ridenti | la terra c'impregna gioiosa | di freschi profumi, di gocce | di pioggia, la più rugiadosa. | Le lacrime della rugiada | l'allegran di pianto glorioso, | son veli di perle lucenti | che adornano un petto vezzoso.”

Yehuda Ha-Levi (1079–1141) rabbino di origine sefardita, fu filosofo, teologo, medico e poeta

Origine: Canto dedicato all'amico Ischaq ben Yalton. Storia della letteratura ebraica biblica e postbiblica, p. 302.
Origine: Citato in Antonio Belli, Storia della letteratura ebraica biblica e postbiblica, pp. 302-303

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“Difesa miglior, ch'usbergo e scudo, | È la santa innocenza al petto ignudo.”

VIII, 41
Gerusalemme liberata
Variante: Difesa miglior, ch'usbergo e scudo,
È la santa innocenza al petto ignudo.

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“Un giorno Febo uscì, e non tornò più. Lo aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando. […] Non appena si fece giorno, corsi alla prigione municipale dei cani. Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino. Il guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una macchina o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di giovinastri. […] Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria dell'Università, alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche. Corsi all'Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro. Nel pomeriggio tornai all'Università, entrai nella Clinica Veterinaria. […] Lungo le pareti erano allineate l'una a fianco dell'altra, come i letti di una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato, o dal petto spalancato.”

La pelle, Il vento nero

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“Hai il cuore a punta… Mi trapassava il petto a ogni battito.”

Isabella Santacroce (1970) scrittrice italiana

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“Il fanciullo ha formulato la eterna domanda ebraica: perché Iddio tratta proprio noi tanto duramente, fra tutti gli altri popoli, noi che lo abbiamo servito come nessun altro? Perché ci getta sotto i piedi degli altri, affinché ci calpestino, noi che per primi l'abbiamo riconosciuto e celebrato nell'impenetrabilità dell'essere Suo? Perché distrugge quel che edifichiamo, annienta quello che speriamo, perché ci nega la dimora dovunque noi ci arrestiamo, perché aizza un popolo dopo l'altro contro di noi con odio eternamente rinnovato? Perché ci mette così duramente alla prova, noi, sempre noi, che egli aveva eletti e iniziati per primi nei suoi misteri? No, io non voglio mentire a un fanciullo, perché se la sua domanda è bestemmia allora io stesso sono un bestemmiatore in tutti i giorni della mia vita. Ecco, io lo confesso davanti a voi tutti: anch'io, per quanto resista, anch'io contendo senza fine con Dio, anch'io, vecchio di ottant'anni, rivolgo a Dio giorno per giorno la domanda di questo innocente: perché ci precipita Egli così profondamente nella miseria? Perché permette che siamo privati dei nostri diritti, perché aiuta persino i ladri nelle loro rapine? E anche se mi batto mille volte il petto con il pugno, umiliandomi, pure non posso soffocarlo questo grido d'ansiosa domanda. Non sarei un ebreo né un uomo se essa non mi torturasse ogni giorno, e solo nella morte essa s'irrigidirà sulle mie labbra.»”

Origine: Il candelabro sepolto, pp. 54-55

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“Le FEMEN sono un gruppo di ragazze che in tutta l'Europa si batte per i diritti civili e umani. Usano dei metodi alle volte un po' provocatori per lanciare i loro slogan. Per esempio, vedete, si scrivono sul petto. Praticamente sono come dei Salvini senza felpa. A me le FEMEN piacciono un po' perché adoro il loro stilista e un po' perché ogni tanto ci azzeccano.”

Maurizio Crozza (1959) comico, imitatore e conduttore televisivo italiano

da Crozza nel Paese delle Meraviglie, 17 aprile 2015
Origine: Visibile al minuto 00:02:00 di Crozza nel Paese delle Meraviglie - Puntata 17/04/2015 https://www.youtube.com/watch?v=MPhXfQ4xlak, La7 Intrattenimento, YouTube.com, 17 aprile 2015.

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“Baldina, – esclamò Livio precipitandosi su di lei, soffocando coi baci un suo piccolo grido di paura e di piacere.
L'afferrò alla vita, la sollevò di peso come una bimba e premendola incontro al suo petto, nell'atteggiamento cupido geloso e contesa, uscì dalla sala da pranzo, attraversò quasi correndo il salone Luigi decimosesto, quindi uno studio appena illuminato dove inciampò in alcune poltrone di cuoio, quindi un gabinetto da bagno dalle pareti coperte di specchi nei quali egli si vide passare rapidamente curvo sul suo tesoro, con le labbra pallide e un volto contratto da ladro inseguito, e penetrò finalmente nella camera nunziale.
Allora sul letto coperto d'una gran pelle di ermellino egli depose con delicatezza la sua preziosa conquista e la chiamò dolcemente per nome due, tre, molte volte, tentando di sorriderle ancora.
Ella non sorrise più e non rispose. Guardò coi suoi grandi occhi dilatati cerchiati d'azzurro a una a una le luci che si spegnevano, guardò le pupille di Livio che s'intorbidivano.
Udì ch'egli le parlava sulla bocca con una voce mutata, con parole sconnesse, con le sue membra calde e veementi di maschio avvinghiate alla sua tenera carne di bambina. Udì il battito confuso dei loro due cuori premuti l'uno sull'altro, confusi nel loro irrompente palpitare, e s'abbandonò spasimando a quell'avidità meravigliosa e brutale che la torturava come un divino martirio.”

Amalia Guglielminetti (1881–1941) scrittrice e poetessa italiana

Origine: Gli occhi cerchiati d'azzurro, pp. 151-152

“[Maria Antonietta] Possedeva ciò che sul trono vale più della bellezza perfetta, il contegno di una regina di Francia, anche nei momenti in cui più cercava di sembrare soltanto una bella donna. Aveva degli occhi non belli, ma capaci di assumere qualunque espressione, e la benevolenza o l'avversione si dipingevano nel suo sguardo nella maniera più straordinaria; non sono del tutto sicuro che il suo naso fosse quello giusto per il suo viso. La bocca era decisamente sgradevole, il labbro spesso, prominente e talvolta cadente è stato citato come tratto nobile e distintivo della sua fisionomia, ma sarebbe potuto servire solo per rappresentare la collera e l'indignazione, e non era questa l'espressione abituale della sua bellezza; la sua pelle era stupenda, come pure le spalle e il collo; il petto era un po' troppo piatto, e il busto avrebbe potuto essere più elegante; mani e braccia così belle non ne ho più riviste. Aveva due andature, una decisa, un po' frettolosa, l'altra più morbida e più ondeggiante, direi quasi carezzevole, anche se non permetteva di dimenticare il rispetto. Nessuno ha mai fatto la riverenza con tanta grazia, riuscendo a salutare dieci persone con un solo inchino e dando, con la testa e con lo sguardo, a ciascuno ciò che gli era dovuto. In poche parole, se non mi sbaglio, come alle altre donne si offre una sedia, si sarebbe quasi sempre voluto avvicinarle un trono.”

Alexandre de Tilly (1761–1816)

citato in Amanti e regine: il potere delle donne, p. 360
Aveva due modi di camminare: uno deciso, leggermente affrettato e sostenuto; l'altro più indolente e ondeggiante, quasi carezzevole, anche se mai irrispettoso. Nessuno si inchinò mai con altrettanta grazia, con una sola riverenza, per salutare dieci persone, dando a ciascuno la sua parte con il capo e lo sguardo. (citato in Maria Antonietta: L'ultima regina, p. 175)

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“Mi piacciono sia gli uomini che le donne. Amo il corpo femminile ed apprezzo realmente le curve delle donne. Ho sicuramente bisogno di un uomo in camera da letto però, di un bel petto muscoloso su cui sdraiarmi. Comunque ho voglia di esplorare. Mai dire mai.”

Miranda Kerr (1983) modella australiana

Origine: Da un'intervista rilasciata a GQ; citata in Miranda Kerr: Con una donna? Mai dira mai http://www.thegossipers.com/gossip/miranda-kerr-con-una-donna-mai-dire-mai.asp, Thegossipers, 1° aprile 2014.

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“Possedeva ciò che sul trono vale più della bellezza perfetta, il contegno di una regina di Francia, anche nei momenti in cui più cercava di sembrare soltanto una bella donna. Aveva degli occhi non belli, ma capaci di assumere qualunque espressione, e la benevolenza o l'avversione si dipingevano nel suo sguardo nella maniera più straordinaria; non sono del tutto sicuro che il suo naso fosse quello giusto per il suo viso. La bocca era decisamente sgradevole, il labbro spesso, prominente e talvolta cadente è stato citato come tratto nobile e distintivo della sua fisionomia, ma sarebbe potuto servire solo per rappresentare la collera e l'indignazione, e non era questa l'espressione abituale della sua bellezza; la sua pelle era stupenda, come pure le spalle e il collo; il petto era un po' troppo piatto, e il busto avrebbe potuto essere più elegante; mani e braccia così belle non ne ho più riviste. Aveva due andature, una decisa, un po' frettolosa, l'altra più morbida e più ondeggiante, direi quasi carezzevole, anche se non permetteva di dimenticare il rispetto. Nessuno ha mai fatto la riverenza con tanta grazia, riuscendo a salutare dieci persone con un solo inchino e dando, con la testa e con lo sguardo, a ciascuno ciò che gli era dovuto. In poche parole, se non mi sbaglio, come alle altre donne si offre una sedia, si sarebbe quasi sempre voluto avvicinarle un trono.”

Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena (1755–1793) regina consorte di Francia e di Navarra e moglie di Luigi XVI

Conte di Tilly
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“Scrisse già Claudio Fauriel che l'Alighieri «ha voluto fare ed ha fatto di Sordello il tipo, l'ideale del patriotta in generale e più particolarmente forse del patriotta italiano; egli ne ha fatto un ghibellino, il quale non sa perdonare a Rodolfo d'Asburgo d'aver neglette le cose d'Italia, aggravandone con siffatta negligenza le condizioni; ma che tuttavia spera ed invoca ancora da un altro imperatore la salvezza della penisola». Vi sono in cotesto giudizio del dotto francese inesattezze gravi. Sordello non rappresenta già nel Purgatorio l'amor di patria in generale e neppur l'amore dell'Italia, bensì personifica, a mio avviso, nella sua forma più caratteristica, più primitiva, se così posso esprimermi, la carità verso il loco, la tenerezza, che lega indissolubilmente l'uomo al terreno dove posò pria, dove fu nudrito dolcemente, dove riposano l'ossa dell'uno e dell'altro suo parente. Dante ha voluto mostrare in lui non l'Italiano, bensì il Mantovano; e se egli sorge così impetuoso, obliando l'alterezza innata e l'abituale disdegno, ad abbracciare Virgilio, ciò è dovuto unicamente al magico suono di quel nome che spunta sul labbro del poeta: Mantua me genuit. S'egli non fosse nato tra i canneti del Mincio, se non trasse l'origine dal luogo ond'ei pure è venuto, avrebbe il cattano di Goito mutato sì prontamente contegno? No davvero. È dunque indubitabile: Sordello raffigura quel sentimento, quel vincolo che nasce dall'avere comuni, secondo dice Cicerone, i monumenti dei maggiori, i templi, i sepolcri.Ma codesto sentimento non esiste più nel petto degli italiani a' dì dell'Alighieri: esso ne è stato violentemente sradicato. In luogo suo i cuori non nutriscono che odio; e dall'odio son generate le fazioni, per colpa delle quali appaiono partiti non gli abitanti soltanto delle città tutte della penisola, ma quelli pure de' borghi, e fin de' villaggi.”

Francesco Novati (1859–1915) filologo italiano

Origine: Citato in Maria Acrosso, La critica letteraria, pp. 78-79

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“Fate che anche un uomo del volgo vegga un malato pallido, debole, tossicotoso, emaciato, egli vi dirà costui essere un tisico. Allorché taluni vi sono, che sebbene non abbiano i polmoni ulcerati, tuttavia sono consunti da diuturne febbri, hanno la tosse, ma secca, dura e senza sputi, anche questi propriamente sono chiamati tisici. Hanno anche questi una oppressione di petto, una infermità di polmone, l'angoscia, l'intolleranza, la nausea, i brividi vespertini e calori mattutini, un molesto sudore vaporoso sino al petto, emettono nella espettorazione materie di diversa qualità, come di sopra notammo: hanno la voce rauca, il collo alquanto ritorto e gracile, non pieghevole ma come irrigidito: le dita sottili, e grosse le loro articolazioni, talché sembra che le sole ossa ne siano rimaste. Diresti che tabidi ne sono i muscoli: le unghie si rendono adunche, il polpaccio di esse si fa rugoso e spianato, imperocchè per il dimagrimento perdono le parti molli circolari, e la loro rotondità. Tutta la l'orza è circoscritta alle loro estremità e nelle loro unghia uncinate, colle quali soltanto come membra solide sostengono alcune fatiche. Similmente le narici diventano acuminate e gracili: le guance prominenti e rossastre: gli occhi incavati lucidi splendenti: tumefatta emaciata, pallida o livida è la faccia: le labbra assottigliate stringonsi sui denti, sicché somigliano a chi ride: in tutto finalmente ti rappresentano un cadavere.”

Areteo di Cappadocia medico greco antico

Origine: Delle cause, dei segni e della cura delle malattie acute e croniche, pp. 34-35

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“Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle venature dei bronchi simili a rami d'albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all'uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi. […] A un tratto, vidi Febo. Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto. "Febo" dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. "Febo" dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito. Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: "Non potrei interrompere l'esperienza", disse, "è proibito. Ma per voi… Gli farò una puntura. Non soffrirà". […] Anche gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve gemito usciva delle loro bocche. A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: "Perché questo silenzio?", gridai, "che è questo silenzio?"”

Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve. Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: "Prima di operarli", disse, "gli tagliamo le corde vocali".
La pelle, Il vento nero

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