Frasi su lasciata
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“Questa è la fattoria Hale.
Ecco la vecchia stalla per la mungitura, l’entrata buia che dice Vieni a cercarmi.
Ecco la banderuola, la catasta di legna.
Ecco la casa, echeggiante di storie.
È presto. Il falco vola lento nel cielo sgombro. Una sottile piuma blu volteggia nel vuoto. L’aria è fredda, limpida. La casa è silenziosa, come la cucina, il divano di velluto blu, la piccola tazza da tè bianca.
Da sempre la fattoria canta per noi, le sue famiglie perdute, i suoi soldati e le mogli. Durante la guerra, quando arrivarono con le baionette, entrando con la forza, gli stivali infangati sulle scale. Patrioti. Banditi. Mariti. Padri. Dormivano nei letti freddi. Razziavano la cantina in cerca di barattoli di pesche sciroppate e barbabietole da zucchero. Accendevano grandi fuochi nel campo, e le fiamme si contorcevano, schioccando alte verso il cielo. Fuochi che ridevano. Le facce calde brillavano e le mani erano in tasca, al riparo. Arrostivano un maiale e strappavano la carne dolce e rosea dall’osso. Dopo, si succhiavano via il grasso dalle dita, un sapore familiare, strano.
Ce ne sono stati altri – molti – che hanno rubato, smantellato e saccheggiato. Perfino i tubi di rame, perfino le mattonelle di ceramica. Quello che potevano prendere, prendevano. Hanno lasciato solo i muri, i pavimenti spogli. Il cuore pulsante in cantina.
Noi aspettiamo. Siamo pazienti. Aspettiamo notizie. Aspettiamo che ci venga detto qualcosa. Il vento sta provando a farlo. Gli alberi ondeggiano. È la fine di qualcosa; lo sentiamo. Presto sapremo.”

All Things Cease to Appear

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“Ho lasciato le mie impronte sul mondo, per quanto piccole.”

Markus Zusak (1975) scrittore australiano

I Am the Messenger

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“Di colpo era come se Katherine fosse nella stanza accanto e l'avesse lasciata solo qualche istante prima. Sentì un pizzicore alle dita, come se la stesse toccando. Il senso di quella perdita, che aveva rinchiuso così a lungo dentro di sé, straripò sommergendolo mentre lui si lasciava portare alla deriva, oltre il controllo della sua volontà, perché ormai non voleva più salvarsi. Poi sorrise di gioia, come sull'onda di un ricordo: pensò che aveva quasi sessant'anni e avrebbe dovuto essersi lasciato alle spalle la forza di una tale passione, di un tale amore. Ma sapeva di non averlo fatto. Sapeva che non l'avrebbe fatto mai. Oltre il torpore, l'indifferenza, la rimozione, quell'amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n'era mai andato. In gioventù l'aveva dato liberamente, senza pensarci; l'aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata - quanti anni prima? - da Archer Sloane. L'aveva dato a Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l'aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l'aveva dato a ogni momento della sua vita, e forse l'aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell'amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!”

John Williams (1932) direttore d'orchestra e compositore statunitense

Stoner

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“Prima di lasciare l’edificio, Spears fece una piccola deviazione per raggiungere una delle camere delle uova più recenti. Sul pavimento spiccavano solamente dieci, dodici uova deposte al massimo un paio di giorni prima. Grazie ai dispositivi di sor-veglianza installati ovunque, il generale sapeva di non correre alcun pericolo da parte delle creature a quello stadio di sviluppo. Inoltre, aveva dato ordine a un sottoposto di sbarrare le porte che in genere erano lasciate deliberatamente aperte in modo che i fu-chi potessero accudire le uova a loro piacimento. In tal modo, poteva concedersi di rimanere qualche minuto in quella sorta di incubatrice senza essere interrotto dai nervosi alieni addetti alla cura delle nuove generazioni.
Far visita alle uova lo riempiva di soddisfazione. I gusci elastici e carnosi, con i bordi superiori simili a petali ancora fissati strettamente l’uno all’altro per proteggere il loro prezioso contenuto toccavano una corda del suo cuore. Spears non era un uomo molto portato all’introspezione, un sognatore pronto a dispiacersi per un passato impossibile da mutare o un futuro ancora troppo lontano. Al pensiero preferiva l’azione e tuttavia in quel posto riusciva a cogliere una bellezza fredda e spietata. Davanti a sé aveva dei futuri guerrieri, discendenti dei più valorosi combat-tenti che l’uomo avesse mai conosciuto. E lui il combattimento, la lotta, la guerra ce li aveva nel sangue.”

Steve Perry (1947) scrittore statunitense

Origine: Aliens. Incubo, p. 74

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“Ci sono tante ragioni che ci condussero a evacuare la popolazione da Phnom Penh e altre città.La prima ragione era quella economica, cioè, di assicurare i viveri ai tanti milioni di abitanti nelle città. Dopo aver preso in considerazione il problema, siamo arrivati alla conclusione che non potevamo risolvere questo dilemma finché una popolazione così numerosa rimanesse nelle città. Ma se avessimo evacuato questa popolazione nella compagna, nelle cooperative, quest'ultime avrebbero potuto nutrirla, siccome dispongono di risaie, strumenti di produzione, e tutto ciò di cui avesse bisogno. […] La popolazione non avrebbe avuto alcuna fede nella rivoluzione se fosse lasciata a crepare di fame nelle città. Questa era la ragione economica.Insieme al problema economico c'era quello della difesa e la sicurezza del paese. Prima della liberazione, sapevamo già il piano d'emergenza degli imperialist statunitensi e dei loro alleati. Secondo questo piano, dopo la vittoria e la nostra marcia in Phnom Penh, ci avrebbero causato difficoltà negli ambiti politici, militari, economici e così via per distruggere la nostra rivoluzione. Quindi, dopo aver riflettuto sulla situazione, abbiamo evacuato la popolazione delle città nella campagna, nelle cooperative, per risolvere sia il problema dei viveri che schiacciare in anticipo il complotto degli imperialisti americani, così non avrebbero potuto attaccarci a Phnom Penh.”

Pol Pot (1925–1998) politico e rivoluzionario cambogiano

Citazioni tratte dalle interviste
Variante: Ci sono tante ragioni che ci condussero a evacuare la popolazione da Phnom Penh e altre città.La prima ragione era quella economica, cioè, di assicurare i viveri ai tanti milioni di abitanti nelle città. Dopo aver lungamente preso in considerazione il problema, siamo arrivati alla conclusione che non potevamo risolvere questo problema finché una popolazione così numerosa rimaneva nelle città. Ma se avessimo evacuato questa popolazione nella compagna, nelle cooperative, quest'ultime avrebbero potuto nutrirla, poiché dispongono di risaie, strumenti di produzione, e tutto ciò di cui avesse bisogno. [... ] La popolazione non avrebbe avuto alcuna fede nella rivoluzione se fosse lasciata a crepare di fame nelle città. Questa era la ragione economica.Connesso a questo problema economico c'era quello della difesa e della sicurezza del paese. Prima della liberazione, conoscevamo già il piano d'emergenza degli imperialist statunitensi e dei loro lacchè. Secondo questo piano, dopo la nostra vittoria e la nostra entrata in Phnom Penh, ci avrebbero creato difficoltà nell'ambito politico, militare, economico e così via per distruggere la nostra rivoluzione. Quindi, dopo aver riflettuto sulla situazione, abbiamo evacuato la popolazione delle città nella campagna, nelle cooperative, per risolvere sia il problema dei viveri e, allo stesso tempo, schiacciare in anticipo il complotto degli imperialisti americani, così che non avrebbero potuto attaccarci quando saremmo entrati a Phnom Penh.

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“Sono umilmente qui davanti a voi in un paese che è stato razziato, derubato e spogliato da più di otto anni dal regime brutale e mostroso di Idi Amin. Sono pienamente consapevole della sofferenza e la miseria indescrivibile inflitto sul nostro popolo dal mostro Amin e i suoi seguaci. I suoi tentativi di schiavizzare l'intera nazione e di brutalizzare e torturare un numero innumerevole del nostro popolo col sostegno di traditori, mercenari e altri agenti strainieri hanno lasciato una cicatrice sul nostro paese che non sarà facile cancellare.”

Milton Obote (1925–2005) politico ugandese

Variante: Sono umilmente qui davanti a voi in un paese che è stato devastato, saccheggiato e spogliato per più di otto anni dal regime brutale e mostruoso di Idi Amin. Sono pienamente consapevole della sofferenza e la miseria indescrivibile inflitta al nostro popolo dal mostro Amin e i suoi seguaci. I suoi tentativi di schiavizzare l'intera nazione, di brutalizzare e torturare un numero infinito di persone del nostro popolo col sostegno di traditori, mercenari e altri agenti stranieri hanno lasciato una cicatrice sul nostro paese che non sarà facile cancellare.

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“Io mi sono lasciato alle spalle la religione, ma quando si tratta di narrativa, di scrivere, sono molto religioso.”

Nathan Englander (1970) Scrittore statunitense

Origine: Registrazione sonora, Nathan Englander con Antonio Monda, n. 2007_09_08_161 http://archivio.festivaletteratura.it/flm-web/audio/detail/IT-FLM-AV0001-0001800/nathan-englander-antonio-monda-n-2007-09-08-161, archivio.festivaletteratura.it, 7 settembre 2007.

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“E mi svegliai con l'aria di pioggia recente | che aveva lasciato frammenti di gioia. (da Fortezza Bastiani, n. 4)”

Franco Battiato (1945) musicista, cantautore e regista italiano

Dieci stratagemmi

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“Il Fronte dell'Uomo Qualunque, nell'Italia degli anni Quaranta, sembrava destinato a un successo travolgente. Ci ha lasciato solo qualche aneddoto e il termine qualunquismo.”

Beppe Severgnini (1956) giornalista italiano

Origine: Da La prima frenata dei populisti http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_19/i-populisti-non-sono-imbattibili-fc272ff6-0c20-11e7-a9ee-e937d2fc7af8.shtml, Corriere.it, 19 marzo 2017.

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“Abbiamo lasciato campo libero alle macchine e nel frattempo vogliamo che le tecnologie di produzione, di soggettività e di governo collettivi rimangano immutabili.”

Paul B. Preciado (1970) filosofa spagnola

Origine: Da articolo https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2017/03/03/il-didietro-della-storia, Libération, riportato su Internazionale, 3 marzo 2017.

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“L'eurocomunismo, una delle peggiori forme di revisionismo del XX secolo, anche se consegnato alla pattumiera della storia, ha lasciato comunque una pesante eredità.”

Marco Rizzo (1959) politico italiano

Origine: Citato in Movimento Comunista Internazionale: serve l'Unità Ideologica, Politica e Organizzativa http://ilpartitocomunista.it/2015/02/02/movimento-comunista-internazionale-serve-lunita-ideologica-politica-e-organizzativa, Ilpartitocomunista.it; 2 febbraio 2015.

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“I lazzaroni sono i più squallidi miserabili che si possano immaginare: in nessun altro paese d'Europa se ne vedono di somiglianti. Tra' facchini, forse, delle vetrerie londinesi si troverebbero due o tre straccioni come questi. E sono a Napoli seimila di questi lazzaroni e non uno di essi dorme mai in un letto: tutti dormono su' gradini che son davanti a' palazzi, o sulle panche della strada. Ne vedete alcuni – e ciò è davvero scandaloso – sdraiarsi sotto i muri di Palazzo reale e lì starsene per tutta la giornata a riscaldarsi al sole come tanti maiali: lo spettacolo è dei più disgustosi. Quasi tutti son presso che nudi: soffrono molto il freddo e se il clima fosse lor meno propizio morrebbero tutti certamente. Anche tra gli operai pochi portano le calze e le scarpe: i loro bambini poi non ne portano mai. Si dice che siano avvezzi a questo e alle intemperie: tuttavia l'inverno li affligge ugualmente di geloni e di piaghe alle gambe, e fanno proprio pietà. In primavera que' poveri piccini son lasciati completamente nudi, e così i lor genitori riescono pur a fare una piccola economia.
I conventi a Napoli sono ricchi e usano distribuire pane e brodo una volta al giorno a chi domanda questa carità: però i lazzaroni vivono principalmente di quella: altri, o rubando o chiedendo l'elemosina, ottengono abbastanza per soddisfare alle loro necessità e anche per mantenersi sani e robusti.”

Samuel Sharp (chirurgo) (1700–1778) chirurgo e scrittore britannico

da Lettera nona, Napoli, dicembre 1765, pp. 51-52
Lettere dall'Italia 1765-1766

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“La mia famiglia ha le sue origini in Caransebes, che dà l'idea del nome di Almăjan (nota: il nome dell'artista prima del matrimonio) che ha lasciato perplesse molte persone. Anche se sono nata a Banat, a quattro anni - in barca sul Danubio - sono venuta a Bucarest. Questo è il primo tour della mia vita. Stavo per cadere nel Danubio, e da allora mi è rimasto un vero orrore dell'acqua. Nulla nella mia famiglia di persone tradizionali mi avrebbe probabilmente portata verso arte, specialmente verso il teatro. I genitori mi stavano preparando per i soliti doveri delle donne nel mio mondo: casalinga, moglie e madre. Penso di dovere a questa preparazione la buona organizzazione della mia vita al di là del palcoscenico.”

Aura Buzescu (1894–1992) attrice, regista teatrale e docente rumena

Familia mea îşi are obârşia la Caransebeş, ceea ce poate lămuri numele de Almăjan (notă: numele artistei înainte de căsătorie) care a nedumerit cândva mulţi oameni. Chiar eu sunt născută în Banat, dar la patru ani - cu vaporul pe Dunăre – am venit în Bucureşti. Acesta ar fi primul turneu al vieţii mele. Era să cad în Dunăre şi de atunci am rămas cu o adevărată groază de apă. Nimic în familia mea de oameni aşezaţi nu era de natură să mă îndrepte spre artă, mai ales spre teatru. Părinţii mă pregăteau pentru îndeletnicirile obişnuite ale femeilor din lumea mea: gospodină, soţie şi mamă. Cred că acestei pregătiri îi datorez buna organizare a vieţii mele de dincolo de scândurile scenei
Origine: Citato in Actori aproape uitați: Aura Buzescu https://deieri-deazi.blogspot.it/2015/07/actori-aproape-uitati-aura-buzescu.html, Aura Buzescu - intervista accordata alla rivista Ilustraţiunea Română, 1931

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“Gli hutu, che, nel ' 94, furono in gran parte gli assassini (e che ora rischiano di essere le vittime), sono, in generale, di statura più bassa. Più tozzi. Si dice che fossero invidiosi, al punto da segare talvolta le gambe di quei compatrioti tanto più alti di loro. Ma ci sono anche hutu più grandi e affilati dei tutsi. Dipende dalle regioni. Le diversità etniche possono essere un' invenzione. Un incubo. Sono tuttora un' ossessione. Un' eredità, si dice, lasciata dai colonizzatori bianchi, antropologi da strapazzo, ispirati da quell' antenato dei razzisti del nostro secolo che fu l' ottocentesco conte di Gobineau; e quindi inclini come lui a dissertare sulla "disuguglianza delle razze umane" fondata su una base fisica. E furono loro, coloni e missionari, a supporre e poi a raccontare, fino a costruirci attorno la 'storia' del Ruanda, che i tutsi arrivavano dalle valli del Nilo e discendevano dai bianchi, dunque erano di origine straniera, dei conquistatori, insomma usurpatori, e di una razza superiore agli hutu, volgari bantù africani. Nel bailamme continentale delle tribù la fantasia europea poteva scatenarsi a piacere.”

Bernardo Valli (1930) giornalista e scrittore italiano

Variante: Gli hutu, che, nel '94, furono in gran parte gli assassini (e che ora rischiano di essere le vittime), sono, in generale, di statura più bassa. Più tozzi. Si dice che fossero invidiosi, al punto da segare talvolta le gambe di quei compatrioti tanto più alti di loro. Ma ci sono anche hutu più grandi e affilati dei tutsi. Dipende dalle regioni. Le diversità etniche possono essere un'invenzione. Un incubo. Sono tuttora un'ossessione. Un'eredità, si dice, lasciata dai colonizzatori bianchi, antropologi da strapazzo, ispirati da quell' antenato dei razzisti del nostro secolo che fu l'ottocentesco conte di Gobineau; e quindi inclini come lui a dissertare sulla "disuguglianza delle razze umane" fondata su una base fisica. E furono loro, coloni e missionari, a supporre e poi a raccontare, fino a costruirci attorno la "storia" del Ruanda, che i tutsi arrivavano dalle valli del Nilo e discendevano dai bianchi, dunque erano di origine straniera, dei conquistatori, insomma usurpatori, e di una razza superiore agli hutu, volgari bantù africani. Nel bailamme continentale delle tribù la fantasia europea poteva scatenarsi a piacere.

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“Milosevic è una vistosa reliquia del nazionalismo primitivo, quello che, su scala assai più grande, con le sue degenerazioni ideologiche, ha provocato le tragedie del '900 europeo. È a questo nazionalismo, ricreatosi a pochi minuti di volo dalla nostra costa adriatica, che la Nato ha dichiarato di fatto la guerra. Quasi volesse distruggerlo prima di entrare nel nuovo millennio. È roba da lasciare al secolo che se ne va. Fallito il comunismo, anche nella sua eccentrica versione jugoslava, Milosevic si è gettato in quel nazionalismo: e nel giugno '89 ha dato solennità alla conversione recandosi nella pianura di Kosovo Polje, ai piedi del monumento alla battaglia del 1389 (da cui cominciò il dominio ottomano, durato quasi mezzo millennio), per annunciare che "mai più i serbi si sarebbero lasciati maltrattare". Con quel gesto e quelle parole Milosevic ha spazzato via tutto quel che Tito aveva fatto per contenere i nazionalismi balcanici. E ha dato il via, in modo più o meno diretto, a una serie di massacri in cui i serbi sono stati carnefici ma anche vittime, e da cui sono sempre usciti sconfitti. Sono stati ripudiati dagli sloveni e dai croati, e molti loro insediamenti secolari sono stati scalzati dalle province di confine bosniache e croate. E adesso il Kosovo. Il nazionalismo serbo assume a tratti una colorazione religiosa e messianica, ereditata dal ruolo nazionale che la Chiesa ortodossa ha avuto nei secoli. Nell'Europa occidentale il territorio della nazione si è sostanzialmente delineato prima che si creassero una lingua e una cultura comune. Al contrario la nazione serba non ha un quadro territoriale di riferimento. Le comunità, non sempre maggioritarie tra cattolici, ebrei e musulmani, si identificavano in rapporto alla Chiesa serba. Era serbo chi era ortodosso. Si sono così creati spazi mistici. Sono nate rivendicazioni territoriali stravaganti, dettate dagli avvenimenti politici del momento e dalle leggende. I poemi nazionali hanno cantato per secoli il Kosovo come "culla del popolo serbo", e così lo è diventato di fatto, e tale è rimasto benché abitato al novanta per cento da albanesi. Crollato il comunismo, Milosevic ha sfruttato quel sentimento, attorno al quale, nei momenti di tensione, si raccolgono anche tanti serbi di solito estranei ad ogni tipo di estremismo. La letteratura serba è generosa in opere in cui si piangono le terre perdute e in cui la nostalgia diventa passione violenta.”

Bernardo Valli (1930) giornalista e scrittore italiano