Frasi su corona
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“Motoscafo turismo modificato M T M detto «barchino esplosivo». Motoscafo a fondo piatto, largo m. 1,90, lungo m. 5,20; un motore Alfa Romeo 2500 gli assicura la velocità di 32 mg.; 5 ore di autonomia alla massima velocità. Il complesso elica-timone, costituente un blocco esterno allo scafo come in un fuori-bordo, è rotante; si solleva cioè, con facile manovra, per passare a fior d'acqua sopra le ostruzioni senza intopparvi. Nella parte anteriore del motoscafo ha sede un barilotto contenente 300 Kg. di esplosivo con sistema di scoppio ad urto o a pressione idrostatica. Un uomo solo lo pilota; superate cautamente le eventuali ostruzioni e le reti para siluro, individua il bersaglio; lo punta con la prua del barchino: quando è in punteria, mette a tutta forza, blocca il timone, e subito si lancia in mare. Mentre il pilota, per non trovarsi in acqua al momento dell'esplosione, si issa rapidamente sul salvagente di legno che gli faceva da schienale e che si stacca da bordo un attimo prima del tuffo mediante la manovra di una leva, il barchino continuando la sua corsa investe il bersaglio: la parte poppiera si stacca da quella prodiera (per l'azione di una corona di carichette esplosive disposte tutt'intorno allo scafo che, all'urto, tranciano il barchino in due) e affonda rapidamente, mentre il barilotto con la carica, giunto alla quota prestabilita in base al pescaggio del bersaglio, esplode per pressione idrostatica, aprendogli una vasta falla nell'opera viva. Con questo mezzo d'assalto sono stati compiuti gli attacchi di Suda e di Malta.”

Junio Valerio Borghese (1906–1974) militare e politico italiano

Origine: Decima Flottiglia Mas, p. 27

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“[Su Martino V] Corona veli aurei.”

Malachia di Armagh (1094–1148) abate e arcivescovo cattolico irlandese

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“[Su Giulio III] De corona montana.”

Malachia di Armagh (1094–1148) abate e arcivescovo cattolico irlandese

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“È settentrional spada di ladri | Tòrta in corona.”

Giuseppe Giusti (1809–1850) poeta italiano

da L'incoronazione, 22, citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 465

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“Molti artisti contemporanei, – compreso l'autore di questo articolo – hanno subito crisi simili e confuso l'énorme con il grande, la violenza con l'energia. Ma è generalmente una follia romantica della gioventù e quella d'un tempo in cui il cuore si esalta a caso prima che il gusto abbia scelto. Il fatto strano è che essa si sia verificata in Van Lerberghe all'età di quarant'anni, come un improvviso richiamo delle forze dell'adolescenza in un'anima poco a poco rinnovata. Questo ribollire disordinato non è certo inutile ed il genio di Emile Verhaeren ha potuto trarne soprendenti capolavori. In Van Lerberghe esso si è presto contenuto e si è risolto in lirismo.
No, certo, questo nuovo stato non si è riflesso direttamente nella sua opera, ma senza dubbio è servito a darle una più viva ampiezza. Lui, Charles Van Lerberghe non somigliava più al poeta. Aveva da poco iniziato l'ammirevole Chanson d'Eve, e mi mostrò anche l'abbozzo di una commedia leggendaria in tre atti che nulla doveva allo stoicismo. Era una sorta di satira, di spirito pagano, insieme ironica e veemente. Io terminavo le ultime pagine di Clartés e lavoravo ancora ad alcune Banalités indiscrètes impertinenti e talvolta sbrigliate. Essendoci scambiati i nostri scritti, restammo stupefatti; poiché singolare era il contrasto fra il profondo accordo di tutte le nostre tendenze di artisti e la divergenza del nostro spirito. Ma la trasformazione proseguiva in Charles Van Lerberghe e a sua insaputa. A Firenze, dove vivemmo insieme per molti mesi era improvvisamente ridivenuto il sognatore di un tempo. Non lo stesso, tuttavia; era gioioso, più appassionato di ciò che la vita contiene, più lirico. E, in verità, il lirismo trionfa lungo tutti questi poemi della Chanson d'Eve, molti dei quali furono scritti in un giardino di oleandri, all'ombra della vecchia torre che corona la collina di Arcetri, mentre un immenso paesaggio mostrava in lontananza l'Arno che bagnava i palazzi fiorentini.”

Albert Mockel (1866–1945)
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“Vigiak (Sorte, Foruna, Destino), che ricorda la tradizione pagana, è una delle principali feste armene, che comincia il giovedì dell'Ascensione e dura fino alla domenica di Pentecoste. Alla vigilia dell'Ascensione le ragazze del villaggio si riuniscono e scelgono fra loro una brigatella per organizzare la festa. Le prescelte prendono un'anfora di terra cotta, l'empiono d'acqua attinta a sette fonti o pozzi, ne ornano la bocca con fiori colti in sette campi diversi, poi vi gettano dentro un oggetto caro (bracciali, anelli, grani di monili o di corone, orecchini, fermagli, ecc.), facendo voti di gioia pei parenti e per l'amato, a occhi chiusi e con profondo raccoglimento. La notte dal mercoledì al giovedì, esse nascondono l'anfora in un cantuccio segreto di giardino, all'aperto, per esporla all'influsso delle stelle, e la sorvegliano, perché non sia rapita dai giovanotti, che la cercano per portarla via. Se i giovani vi riescono, le fanciulle, per riaver l'anfora, devono offrir loro gran quantità di non la rapiscano. – La domenica di Pentecoste, le ragazze si raccolgono per l'ultima volta; circondano l'anfora, e, dopo averla baciata, la mettono fra le braccia d'una di loro; poi, un'altra fanciulla, vestita da sposa, a rappresentar appunto la sposa della festa della "Vigiak", trae dal'anfora un oggetto, mentre una vecchia canta un ritornello, di felicità o di mal augurio o di burla; e così via via per ciascun oggetto gettato nell'anfora; onde le fanciulle si rallegrano o si attristano secondo il presagio lieto o triste. Nelle varie contrade dell'Armenia, la festa della Vigiak presenta qualche cambiamento; ma in tutte è deliziosamente gentile e pensosa, degna d'un popolo delle tradizioni derivate dall'India, la più poetica delle antiche nazioni.”

Domenico Ciampoli (1852–1929) scrittore e bibliotecario italiano
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“Le Barbare sono serti di fiori posti su delle tombe; o corone di cipresso appese ad abbandonate are votive. Il Carducci è apparso come un superstite di altri tempi… E della sua solitudine ebbe anch'egli coscienza. Onde quella tristezza elegiaca di parecchie, delle più belle e più sincere forse, delle Odi barbare: quella quasi nostalgica adorazione di rovine…”

Eugenio Donadoni (1870–1924) critico letterario italiano

da Commemorazione di Giosuè Carducci, in Scritti e discorsi letterari, Firenze, 1921, pp. 251-290
Origine: Citato in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da Walter Binni, vol. II, da Vico a D'Annunzio, La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 570.

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“Nel maggio del 1949 fu istituito a Strasburgo il Consiglio d'Europa, organismo allora privo di poteri politici effettivi e incaricato solo di «porre le basi per la costruzione di una federazione europea». Così nell'atto della sua fondazione. L'anno dopo – dunque, nel 1950 – quel Consiglio bandì un concorso di idee, aperto a tutti gli artisti, per una bandiera della futura Europa unita. Un allora giovane disgnatore alsaziano, Arsène Heitz, partecipò con un bozzetto, dove dodici stelle bianche campeggiavano in un cerchio su uno sfondo azzurro. Come rivelò poi, l'idea non era casuale: devoto della Madonna, recitava ogni giorno il rosario. Proprio quando seppe del concorso europeo e decise di partecipare stava leggendo la storia di santa Catherine Labouré e – stimolato da quella lettura – si era deciso a procurarsi, per sé e per la moglie, una «Medaglia miracolosa», che sino allora non conosceva. Le stelle, dunque, del suo disegno vennero da lì: e, lì, venivano direttamente dall'Apocalisse e dalla sua «Donna vestita di sole» con la corona attorno al capo. Quanto all'azzurro, era il colore tradizionale della Vergine. Tra i 101 bozzetti giunti da tutto il mondo, «inspiegabilmente», come disse lo stesso Heitz (che aveva partecipato al concorso senza troppe speranze, quasi solo per rispondere a un impulso datogli dalla scoperta della Medaglia), il Consiglio d'Europa scelse proprio il suo. Si noti, tra l'altro, che il responsabile della commissione che procedeva alla scelta era un ebreo, Paul M. G. Lévy, direttore del Servizio di stampa e informazione del Consiglio. Non agirono, dunque, motivazioni confessionali […] Inoltre, a conferma della singolarità della scelta, contro la proposta di Heitz stava il fatto che, se dodici erano le stelle sulla bandiera proposta, non altrettanti erano allora gli Stati del Consiglio. In effetti, di fronte alle critiche, il disegnatore dovette replicare che il dodici rappresentava un «simbolo di pienezza» (e tale è, infatti, anche nell'Antico Testamento: dodici, tra l'altro, i figli di Giacobbe, come dodici le tribù di Israele; ed è perciò che dodici è il numero voluto da Gesù per i suoi apostoli, a significare che la Chiesa è il «nuovo popolo eletto»). Avendo adottato questa prospettiva simbolica, le autorità comunitarie, quando gli Stati membri dell'Europa finirono col superare la dozzina, stabilirono ufficialmente che il numero delle stelle sulla bandiera era da considerare immutabile.”

Origine: Ipotesi su Maria, pp. 107-108

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“Quello la sua malattia se l'è portata addosso dalla Francia, e la vuol rinfrescare qui da noi. So che verrà a cercare l'ombra nostra per sciorinar la sua corona al sole.”

William Shakespeare (1564–1616) poeta inglese del XVI secolo

Mezzana; atto IV, scena II; traduzione di Goffredo Raponi, LiberLiber
Pericle, il principe di Tiro
Origine: La malattia cui si riferisce è la sifilide, nota anche come "mal francese". "Sciorinar la sua corona al sole" vuol dire "spendere i suoi denari". La "corona" infatti è il denaro per antonomasia. Il "sole" era simbolo frequente nelle insegne dei bordelli in Inghilterra. Ma crown ha, tra i vari significati, anche quello di "zucca pelata" (la calvizia era un frequente effetto della sifilide). La Mezzana quindi, con le stesse parole, vuole anche intendere che il sifilitico cavalier francese, oltre a spendere le sue corone, verrà anche a spandere la sua malattia.

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“Stetti a lungo davanti a una iris violetta dalla corona tripartita; l'accesso ai calici passava per un velo d'oro e finiva in un abisso di ametista.
Fiori, chi vi ha ideati?”

Ernst Jünger (1895–1998) filosofo e scrittore tedesco

da Nota di diario del 17 giugno 1941, St. Michel, p. 37
Irradiazioni. Diario 1941-1945

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“È bellissimo essere la regina del tennis, ma non puoi mangiare una corona, e non puoi neanche mandare un pezzo di trono per pagare le tasse. Il padrone di casa, il panettiere e quelli del fisco sono un po' strani: vogliono i soldi in contanti… io regno su un conto in banca vuoto e non posso pretendere di riempirlo giocando nel circuito dilettantistico.”

Althea Gibson (1927–2003) tennista statunitense

giustificando il suo passaggio dal tennis dilettantistico a quello professionistico
Origine: Citato in Alessia Gentile, Althea Gibson, da Harlem a Wimbledon http://www.ubitennis.com/sport/tennis/2014/03/09/1036447-althea_gibson_harlem_wimbledon.shtml, Ubitennis.com, 9 marzo 2014.

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“Eletta, prudente, di grazie piena, | di schiatta di re possenti, | dono a noi tu sei della casa Latina, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Viandante al cielo | nelle leggi del cielo profonda, | rinnegasti te stessa, e il grado avito, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Sapiente, santa, veneranda vergine, | al fuoco gettato dal Verbo in terra | accendesti la lampada della fede, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Allo sposo, Cristo incarnato, | con intatta verginità sposata, | nel talamo inaccessibile riposasti, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || D'amor nutrita, pavone gentile, con fila d'oro lucenti e fine, | del crisma, e di triplice corona invidiabile, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Dritto-volante colomba aerea, | l'arca del novello Noè è tuo riposo: | spegnitrice di serpi, cicogna giusta, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Savia martire combattente | per la potenza del Verbo del Padre, | che forte pigiasti lo strettojo colmo, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima! || Oh colorita di colore purpureo, fronzuta, vermiglia qual mela, | inclita sposa, di sangue velata, | oh angelo di bellezza, ammirabile Ripsima!”

Nerses Shnorhali (1102–1173) scrittore e santo armeno

Inno a Santa Ripsima
Origine: In Orfeo, il tesoro della lirica universale, a cura di Vincenzo Errante e Emilio Mariano, sesta edizione rinnovata e accresciuta da Emilio Mariano, Sansoni, Firenze, traduzione di Anonimo Padre Mechitarista, pp. 277-278.

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“Una fiaba da raccontare: quella di una corona che era talmente pesante da poter essere portata solo da chi fosse completamente dimentico del suo splendore.”

Dag Hammarskjöld (1905–1961) 2º segretario generale delle Nazioni Unite

Origine: Tracce di cammino, p. 93

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“Una corona, un trono non possono reggersi sull'instabile fondamento del sangue.”

Mohammad Reza Pahlavi (1919–1980)

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“Nessuno che abbia una corona sul capo è mai al sicuro.”

George R. R. Martin (1948) autore di fantascienza statunitense

Cersei Lannister
2016, p. 217
Il Dominio della Regina

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“Le corone fanno strani effetti alle teste che le portano.”

George R. R. Martin (1948) autore di fantascienza statunitense

Tyrion Lannister
2016, p. 63
Il Regno dei Lupi

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“Ditegli che la corona da lui usurpata appartiene a noi; ditegli che su quella terra che calpesta dovrebbe, invece, inginocchiarsi.”

William Shakespeare (1564–1616) poeta inglese del XVI secolo

Re Edoardo, scena I
Il regno di re Edoardo III

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“La corona è soltanto un cappello che lascia passare la pioggia.”

Federico II di Prussia (1712–1786) re di Prussia

citato in Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2011

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