Frasi su lacrime
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“Qui le lacrime sono più salate | e diversa è anche la cattiva sorte: | sono mille volte Messia | i Messia ungheresi.”

Endre Ady (1877–1919) poeta ungherese

da I Messia ungheresi, p. 49
In Poesia ungherese del Novecento

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“E come lacrime la pioggia | mi ricorda la sua faccia, | io la vedo in ogni goccia | che mi cade sulla giacca.”

Lucio Dalla (1943–2012) musicista, cantautore e attore italiano

da Canzone, n. 2
Canzoni

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“L'oratore incarna le passioni della moltitudine. Per poter ispirare qualsiasi emozione, deve esserne lui stesso attraversato. Per suscitare indignazione, il suo cuore deve essere colmo di rabbia. Per muovere alle lacrime deve far fluire le proprie. Per convincere, deve credere. Le sue opinioni possono mutare man mano che le loro impressioni sbiadiscono, ma ogni oratore intende ciò che dice nell'istante in cui lo dice. Spesso potrà essere incoerente. Ma non sarà mai consapevolmente falso.”

Winston Churchill (1874–1965) politico, storico e giornalista britannico

Origine: Dal saggio Le strutture della retorica.
Origine: Citato in Aldo Grasso, The sinews of peace http://www.corriere.it/cultura/leparole/commenti/churchill_9f7cbfb6-b39f-11e1-a52e-4174479f1ca9.shtml, Corriere.it, 11 giugno 2012.
Origine: Citato in Churchill, prontuario di citazioni per far bella figura http://www.linkiesta.it/it/article/2014/11/30/churchill-prontuario-di-citazioni-per-far-bella-figura/23650/, Linkiesta, 30 novembre 2014.

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“È un patto col diavolo, spiegarlo è facile | scrivo i miei testi migliori con gli occhi pieni di lacrime.”

Rayden (1985) rapper e beatmaker italiano

da Non basterebbe, n. 5

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“Sono stufo di scappare» disse, stupito per la calma del proprio tono. «Stufo di vederti minacciare i miei amici. Non scapperò più.»
Anche Ba'alzamon aveva un cordone ombelicale: nero, molto più grosso del suo, così grande che avrebbe reso minuscolo il corpo umano e che invece era reso minuscolo da Ba'alzamon. Ogni pulsazione di quella vena nera consumava luce.
«Credi che faccia differenza, se scappi o ti fermi?» Le fiamme nella bocca di Ba'alzamon risero. Le facce nel focolare piansero all'ilarità del loro padrone. «Sei fuggito da me in molte occasioni, ma ogni volta ti raggiungo e ti costringo a ingoiare il tuo orgoglio condito di lacrime e di piagnistei. In molte occasioni ti sei fermato a combattere e poi, sconfitto, hai strisciato implorando pietà. Hai questa scelta, verme, e solo questa: mettiti in ginocchio ai miei piedi, servimi bene e ti darò potere sopra i troni; oppure diventa il burattino di Tar Valon e urla mentre vieni sgretolato nella polvere del tempo.»
Rand cambiò posizione, con un'occhiata al di là della porta, quasi a cercare una via di fuga. Che il Tenebroso lo pensasse pure. Al di là della porta c'era sempre il nero del nulla, diviso in due dal cavo lucente che partiva dal suo corpo. E c'era anche il cordone ombelicale di Ba'alzamon, così nero da risaltare nella tenebra come sulla neve. I due cordoni pulsavano fuori fase, uno al contrario dell'altro, e la luce resisteva a stento alle ondate di tenebra.
«Ci sono altre scelte» disse Rand. «La Ruota, non tu, tesse il Disegno. Sono sfuggito a tutte le trappole che hai predisposto per me. Sono sfuggito ai Fade e ai Trolloc e ai tuoi Amici delle Tenebre. Ti ho rintracciato qui e ho distrutto il tuo esercito. Non sei tu, a tessere il Disegno.”

Robert Jordan (1948–2007) scrittore statunitense

Rand al'Thor e Ba'alazamon, capitolo 51
La ruota del tempo. L'occhio del mondo

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“In ogni occasione il telecronista Paolo Frajese si fa interprete e voce delle manifestazioni più fanatiche del tifo contradaiolo, con frasi come "vivono tutto un anno per due minuti di corsa", "in questi minuti passano di mano enormi somme di denaro", rievocando ogni volta un folclore tramandato, fatto di violenze, di demenze e di incoscienze, "passato ogni volta per buono": come direbbero i sociologi, per valore positivo da incoraggiare. Le scene immediatamente successive, con gente in lacrime che abbraccia e bacia un cavallo, altri che si scazzottano belluinamente, altri che vengono portati via in barella, vengono accomunate alle "scene di esultanza" con cui gli alfieri sventolano i gonfaloni delle contrade. Se vogliamo ammazzarci, sembra essere la filosofia della piazza e del suo telecronista, lasciate che lo facciamo in festa. Si dice: il Palio è una tradizione, un rito. E anche: è un colossale affare economico. Erano riti, anche, i sacrifici umani, un tempo. E sono colossali affari economici moderni, per esempio, il gioco del calcio e la caccia. Eppure quelli, e tanti altri meno sanguinosi, li si è aboliti; e questi lì si sta sottoponendo a limitazioni e controlli.”

Gianluigi Melega (1935–2014) giornalista, scrittore e politico italiano

Origine: Da "Siena merita un volto migliore" http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/18/siena-merita-un-volto-migliore.html, la Repubblica, 18 agosto 1985, p. 12.

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“Il ministro Brunetta – dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato.”

Claudio Magris (1939) scrittore italiano

Origine: Da Il voto troppo tiepido per l'Europa.

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“Il salice piange, e i miei sguardi gli asciugano le lacrime.”

Roberto Gervaso (1937) storico, scrittore, giornalista

Origine: Aforismi, p. 82

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“Sempre gridate ai figli il nome dei padri | che lievitano il pane con sale di lacrime | e li nutrono di carni martoriate…”

Pietro Nigro (1939) poeta italiano

da Terra di Sicilia, vv. 17-19
Il deserto e il cactus

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“Ci sono quelli che vengono schiantati dal dolore, quelli che diventano pensosi. Ci sono quelli che parlano del più e del meno sull'orlo della tomba, e continuano in macchina, del più e del meno, neanche del morto, di piccole cose domestiche; ci sono quelli che dopo si suicideranno e non glielo si vede in faccia, ci sono quelli che piangono molto e cicatrizzano in fretta, quelli che annegano nelle lacrime che versano, quelli che sono contenti, sbarazzati da qualcuno; ci sono quelli che non riescono più a vedere il morto, tentano, ma non ce la fanno, il morto ha portato con sé la propria immagine, ci sono quelli che vedono il morto ovunque, vorrebbero cancellarlo, vendono i suoi tre stracci, bruciano le sue foto, traslocano, cambiano continente, ci riprovano con un vivo, ma niente da fare, il morto è sempre lì, nel retrovisore; ci sono quelli che fanno il pic-nic al cimitero e quelli che lo evitano perché hanno una tomba scavata nella testa, ci sono quelli che non mangiano più, ci sono quelli che bevono, quelli che si domandano se il loro dolore è autentico o costruito; ci sono quelli che si ammazzano di lavoro e quelli che finalmente si prendono una vacanza, ci sono quelli che trovano la morte scandalosa e quelli che la trovano naturale con-l'età-per-cui, circostanze-che-fanno-sì-che; è la guerra, è la malattia, è la moto, la macchina, l'epoca, la vita; ci sono quelli che trovano che la morte sia la vita.”

La fata Carabina

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“Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle venature dei bronchi simili a rami d'albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all'uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi. […] A un tratto, vidi Febo. Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto. "Febo" dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. "Febo" dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito. Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: "Non potrei interrompere l'esperienza", disse, "è proibito. Ma per voi… Gli farò una puntura. Non soffrirà". […] Anche gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve gemito usciva delle loro bocche. A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: "Perché questo silenzio?", gridai, "che è questo silenzio?"”

Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve. Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: "Prima di operarli", disse, "gli tagliamo le corde vocali".
La pelle, Il vento nero

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“[Su La canzone dei Nibelunghi] È un linguaggio di pietra, e i versi sembrano blocchi di macigno squadrati. Qua e là, tra le fessure, sgorgano fiori vermigli come gocce di sangue, o pendono lunghi tralci d'edera come verdi lacrime.”

Heinrich Heine (1797–1856) poeta tedesco

Origine: Traduzione di Italo Alighiero Chiusano. Citato in Geza Gardonyi, Sotto la tenda di Attila, traduzione e commento a cura di Laura Draghi, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 1983, p. 71.

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“Oltre a ciò che tutti sanno di un cane pechinese | vi dico davvero che quello zero di vituccia evanescente nelle mie palme | è stato niente di più e niente di meno che il puro amore stesso, | è stato sì, davvero, quel certo amore che con devota estasi | ed in lotte strazianti brama e insegue l'anima assetata | perché vuole fiammeggiare come roveto, | perché vuol boccheggiare come i pesci di Francesco. | Eccolo, è qui, ingenuo e minuto, scintillante e trasparente | come un pizzico di radio attivo estratto da centinaia di quintali di pece. | Non ha niente, né cervello né cuore, è solo amore, | più non ci sono ragioni o istinti, c'è solo l'amore. | Non ha neppure vita più, nemmeno vuole vivere, solo amare vuole. | Amore senza anima, senza sensi, senza vita. | In verità vi dico che anche a noi uomini farebbe bene amare così. | Lo so, vorremmo amarci, amare gli uni e gli altri e non noi stessi, | gli uni e gli altri e non quell'io fastidioso al quale siamo legati a vita. | Sarebbe bello amare, amare un altro e non compiangere sempre noi stessi. | So che siete buoni, ragazzi, buoni sotto quelle larve sfigurate dalla cattiveria. | Attendi, è vero, mio assassino, attendi, è vero, la mia morte? | Sarebbe bello amare, sarebbe bello, ma tu ti tormenti mentre sai che vivo. | Tutti aspettate insieme con me il momento d'amarmi, | ma morire io devo perché voi possiate amarmi, ricordarmi con lacrime.”

Frigyes Karinthy (1887–1938) scrittore, poeta e drammaturgo ungherese

da Tommy, Monologo ingenuo sul cuore di un cane
Origine: In Mario De Micheli e Eva Rossi, Poesia ungherese del Novecento, Schwarz editore, Milano, 1960, p. 94.

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“Certa gente perde una creatura amata e tira dritto e sposta il proprio affetto su un'altra. Ma è doloroso. Troppo doloroso. L'amore supera l'istinto. Quando ami smetti di vivere per te stesso. Vivi per un'altra persona. La sofferenza è l'emozione più forte che un uomo o un bambino o un animale possano provare. E' una buona sensazione. La sofferenza ti spinge a lasciare te stesso. Esci dal tuo piccolo e limitato guscio. E non puoi soffrire se prima non hai amato. La sofferenza è l'esito finale dell'amore, perché è amore perduto. È il completamento del ciclo dell'amore: amare, perdere, soffrire, lasciare e lasciarsi, poi amare di nuovo. Soffrire è la consapevolezza che dovrai essere solo, e al di là di questo non c'è nulla, perché essere solo è il destino ultimo, definitivo di ogni creatura vivente. Ecco cos'è la morte: la grande solitudine. La conoscenza della mancanza di coscienza. Quando moriremo non ce ne accorgeremo, perché morire è perdere tutto quanto. Ma soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L'esperienza più assoluta, più totale che si possa provare. È troppo. Il corpo arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare dolore. Versare lacrime. La sofferenza ti unisce di nuovo a ciò che hai perso. E' una fusione. Te ne vai anche tu con la cosa o la persona amata che scompare. In un certo senso, ti dividi da te stesso e l'accompagni, fai con lei una parte del viaggio. La segui sin dove ti è concesso spingerti. Ma alla fine, la sofferenza se ne a e tu torni in sintonia con il mondo. Senza l'altro. E riesci ad accettarlo. Che altra scelta abbiamo? Piangi, continui a piangere, perché non torni mai del tutto indietro dal posto in cui sei andato con l'altro. Un frammento che si è staccato dal tuo cuore pulsante è ancora là. C'è una lesione. Una ferita che non guarisce mai. E se ti succede una volta e un'altra e un'altra volta ancora, col tempo se ne va una parte troppo grande del tuo cuore e non riesci più a soffrire. E allora tu stesso sei pronto a morire. Salirai la scala in diagonale e qualcun altro resterà indietro a soffrire per te.”

Flow My Tears, the Policeman Said

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“Comunque ho lasciato gli altri a pallavolare in palestra e sono uscita dalla scuola, c'era un sole pallido color miele. Sono andata al bar di fronte, a vedere le facce. Come faccio spesso, mi sono tappata le orecchie per concentrarmi e capire cosa succedeva intorno. E mi sono sentita strana. Qual'era il motivo del mio disagio? E quale segrato nascondeva la gente seduta?
L'uomo corpulento con la fronte sudata, che sbarrava gli occhi in segno di meraviglia, e disegnava rabbia con la mano. E l'uomo piccolo che ne seguiva il discorso scuotendo la testa e ricalcando i gesti dell'altro. E la giovane carica di gioielli come una Cleopatra che sibilava a bassa voce contro qualcuno, un veleno d'astio che le sue amiche assorbivano come un balsamo ristoratore, ammiccando tra loro per dividere il piacere. O il ragazzo che litigava ad alta voce con la ragazza, costringendola a guardarlo negli occhi, mentre lei si mordeva la mano per la vergogna, col volto rigato di lacrime. O la tavolata dove un giovane zerbinotto raccontava e tutti ridevano. O i due ragazzi che parlavano probabilmente di sport, uno battendo le mani su un giornale, l'altro interrompendolo con una voce roca.
E di colpo ho capito.
Quei signori e signore e ragazzi e ragazze seduti, tutti avevano ragione. E parlandone, si rafforzavano in questa loro certezza. E la loro ragione era costruita sul dileggio, sulla rovina, sul disprezzo degli altri. E più parlavano, più la ragione cresceva e chiedeva il suo tributo di parole, di minacce, di gesti. E sempre di più gli altri, quelli dalla parte del torto, diventavano lontani e miserabili. Ma guardando oltre la strada, nei bar di fronte, altra gente era seduta e anche loro avevano ragione. Una gigantesca, unica ragione divideva il mondo in quelli che l'avevano, cioè tutti, e gli altri, e cioè tutti.
E io, che sentivo di non avere ragione, cosa avrei fatto?
Sono tornata in classe e c'era aria pesante. Marra e Gasparrone avevano insultato Zagara chiamandolo terrone e figlio di galeotto. Lui li aveva assaltati con un tirapugni fatto con la maniglia di una porta. Erano finiti tutti e tre dal preside. Quante battaglie stupide e quante nobili e giuste ci sono nella giornata media di ognuno?”

Stefano Benni (1947) scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano

Margherita Dolce Vita

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“Con la fantasia, Bridget tornò mille volte a quel primo bacio appassionato, rendendolo sempre più perfetto.
Ma non andò oltre.
Per molte ore, dopo avere lasciato Eric, rimase sveglia nel sacco a pelo.
Tremava.
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Ecco che cominciavano a scendere.
Lacrime di tristezza, di disagio, d’amore.
Erano il genere di lacrime che le venivano quando si sentiva troppo colma: aveva bisogno di fare un po’ di spazio.
Guardò il cielo.
Era più grande, quella notte.
Quella notte i suoi pensieri si avventuravano negli spazi infiniti e, come diceva Diana, non trovavano alcun ostacolo su cui rimbalzare per tornare indietro.
Andavano avanti e avanti, finché nulla sembrava più reale.
Neppure il pensiero. Bridget si era stretta a Eric, piena di desiderio, insicura, spavalda e impaurita.
C’era una tempesta nel suo corpo, e quando era diventata troppo violenta, lei era andata via. Si era lasciata levitare fino alle fronde delle palme.
Lo aveva già fatto altre volte.
Avrebbe lasciato affondare la nave senza il capitano.
Quello che era successo con Eric era insondabile, indescrivibile.
Ora tutto questo era lì con lei, incerto, desideroso di qualcuno che se ne prendesse cura: ma Bridget non sapeva come.
Richiamò indietro i propri pensieri, raccogliendoli ad anello come il filo di un aquilone.
Si arrotolò il sacco a pelo sotto il braccio e tornò furtiva alla baracca. Si distese sul letto.
Quella notte non avrebbe concesso ai suoi pensieri di avventurarsi oltre le travi sbiadite del soffitto”

Ann Brashares (1967) scrittrice statunitense

The Sisterhood of the Traveling Pants

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“Quando ero piccola mia madre mi lesse una storia su una ragazzina cattiva. La lesse a me e a mia sorella: ce ne stavamo rannicchiate contro il suo corpo sedute sul divano, mentre lei leggeva ad alta voce un libro che teneva sulle ginocchia. La luce della lampada splendeva su di noi, avvolte da una coperta. La ragazza della storia era bella e crudele. Sua madre era povera, perciò la mandava a lavorare per una famiglia di persone ricche che la viziavano e la coccolavano, ma le dicevano anche di andare a trovare la madre. Lei però si sentiva troppo importante, e si limitava a farsi vedere. Un giorno quella gente ricca la mandò a casa con una pagnotta per la madre, ma quando la ragazza si trovò davanti a una pozzanghera di fango, per non sporcarsi le scarpe ci buttò il pane, e ci mise i piedi sopra. La pagnotta affondò come in una palude, e lei affondò con essa, scendendo giù giù fino a un mondo popolato di demoni e creature orribili. Dal momento che era bella, la regina dei demoni ne fece una statua per donarla al suo bisnipote. La ragazza venne coperta da serpenti e melma, intrappolata e circondata dall’odio di ogni altra creatura. Soffriva la fame, ma non riusciva a mangiare il pane che non le si staccava dai piedi, e poteva sentire quello che la gente diceva di lei: un ragazzo che passava di lì aveva visto che cosa le era successo e lo aveva raccontato a tutti, e tutti dicevano che se lo meritava, persino sua madre diceva che se lo meritava. La ragazza non poteva muoversi, ma anche se avesse potuto avrebbe finito per torcersi di rabbia. “Non è giusto!”, urlò mia madre, facendo il verso alla ragazza cattiva.
Io me ne stavo seduta contro mia madre mentre ci raccontava la storia, e forse per questo mi sembrò di non sentirla semplicemente con le orecchie: la sentii nel suo corpo. Sentivo una ragazza che voleva essere troppo bella. Sentivo una madre che voleva amarla. Sentivo un demone che voleva torturarla. E li sentivo così strettamente mescolati dentro di me che non c’era modo di separare tutte quelle emozioni. La storia mi terrorizzò e mi misi a piangere. Mia madre mi prese tra le sue braccia. “Aspetta”, disse, “la storia non è finita: lei sarà salvata dalle lacrime di una bambina innocente come te”. Mia madre mi baciò sulla fronte per poi finire di raccontare la storia. E io l’ho dimenticata per molto, molto tempo.”

Veronica