Frasi su infinito
pagina 12

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“[Sulla produzione di carne] Da un lato una piccola leccornia per gli uomini, dall'altro infinite e terribili sofferenze per gli animali.”

Helmut F. Kaplan (1952) filosofo austriaco

Origine: Citato in Claus Leitzmann, Vegetariani: fondamenti, vantaggi e rischi, traduzione di Margherita Cavalleri, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 18 http://books.google.it/books?id=Ri3JqD6E8vwC&pg=PA18. ISBN 88-424-9584-0

“Che importa l'eternità della dannazione a chi ha trovato, per un attimo, l'infinito della Gioia?”

Carlo Maria Franzero (1892–1986) scrittore e giornalista italiano

Origine: Il fanciullo meraviglioso, p. 119

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“Nessuna meraviglia che un uomo come Giordano Bruno corredi questo mondo della spazialità infinita, sottratto in certo modo alla onnipotenza divina, e pure completamente misurabile, di una sublimità quasi religiosa e che gli attribuisca, «accanto all'estensione infinita del χενόν democriteo, l'infinita dinamica dell'anima del mondo neoplatonica». Nonostante l'afflato mistico, questa concezione dello spazio è già quella che più tardi verrà razionalizzata da Cartesio e formalizzata nella teoria Kantiana.”

Erwin Panofsky (1892–1968) storico dell'arte tedesco

pag. 46
La prospettiva come forma simbolica
Origine: [Nota presente nel medesimo testo da cui è tratta la citazione] L. Olschki, op. cit.; a questo proposito anche Jonas Cohn, Das Unendlichkeitsproblem, 1896. È particolarmente interessante il modo in cui Bruno, per poter fondare il suo concetto dello spazio infinito anche sull'«Autorità» degli antichi, contro la concezione scolastico-aristotelica, si rifà consapevolmente ai frammenti dei presocratici, e in particolare alle dotrine di Democrito: in certo modo – ed è un fatto sintomatico per tutto il movimento rinascimentale – egli si vale di una Antichità contro un'altra; il risultato è un terzo termine, appunto la specifica «modernità». L'opposto della bella definizione bruniana dello spazio come «quantitas continua, physica triplici dimensione constans» è la personificazione medioevale (ad esempio, nel Duomo di Parma) delle quattro dimensioni (parallele ai quattro evangelisti, ai quattro fiumi del paradiso, ai quattro elementi, ecc.)

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“Penso che il modo in cui le artiste femmine si stanno mettendo in luce adesso, è una parentesi, non credo durerà. Ma è ciò che vogliono fare, io no, ma questa sono io. Sono un'artista che non l'ha mai fatto e non lo faccio solo perché lo stanno facendo loro, non voglio farlo. Ho mostrato il mio stomaco quando ero più giovane ed è stato abbastanza per me, un'infinità di scollature ed i miei addominali era buoni. Ma penso che sia una sorta di "Cos'altro possono fare". Sono tutte nude, non possono fare altro, possono? Non so che altro c'è da fare, credo mettersi vestiti addosso sia la prossima fermata. Penso che debbano tornare indietro per fare qualcosa di diverso rispetto ad ora. Al momento fanno sesso sul palco e sono nude, quindi credo che indossare un abito da suora sarebbe la situazione completamente opposta e forse sarebbe diverso. Ma a me personalmente non interessa se vogliono fare quelle cose. Se avessi una figlia sarebbe diverso, avrei molto più giudizio, ma non ho una figlia della quale preoccuparmi se guarda queste cose. Quindi non posso veramente giudicare da una prospettiva materna, ma capisco le madri e capisco la protezione, non vogliono che i propri figli guardino ragazze del genere e che le loro figlie pensino «Oh mio Dio è grandioso voglio indossarlo!» a dieci anni. Capisco la controversia, ma alcuni pensano che controversia sia talento. Io non la penso così, ma sono una vecchia signora, posso dirle queste cose.”

Anastacia (1968) cantautrice e stilista statunitense
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“Brilla il mare alla notte, purpureo inneggia al sole; | sulla riva la, la perla al fondo oscuro | sognano. L'infinito fulge nel vento puro. | Mare! Piaga alla prona terra che non si dole.”

Jānis Sudrabkalns (1894–1975) scrittore lettone

da Timone il misantropo
Origine: In Poeti lettoni contemporanei, presentati da Marta Rasupe, traduzione di Ettore Serra, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1963, p. 29.

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“Una sola e diritta come un raggio di luce, è la via del vero: infinite e contrarie son quelle che uscendone menano al falso.”

Daniello Bartoli (1608–1685) gesuita, storico e scrittore italiano

da Della ricreazione del savio

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“Questa teoria, che ogni molteplicità sia soltanto apparente, che in tutti gli individui di questo mondo, per quanto si presentino in numero infinito l'uno dopo l'altro e l'uno accanto all'altro, si manifesti un essere solo e il medesimo, presente e identico in tutti e veramente esistente, questa teoria […] verrebbe voglia di dire che c'è sempre stata. Difatti essa è la dottrina principale e fondamentale dei sacri Veda, il libro più antico del mondo, del quale possediamo la parte dogmatica o, meglio, la dottrina esoterica nelle Upanishad. Là troviamo, si può dire a ogni pagina, questa grande dottrina che instancabilmente viene ripetuta in forme infinite e commentata con svariate immagini e similitudini. Non c'è da dubitare che abbia costituito il fondamento della sapienza di Pitagora […]. Tutti sanno che in essa soltanto era contenuta quasi tutta la filosofia della scuola eleatica. In seguito ne furono pervasi i neoplatonici […]. Nel secolo IX la vediamo comparire all'improvviso in Europa per merito di Scoto Eriugena il quale, preso dall'entusiasmo, si affanna a rivestirla delle forme e delle espressioni della religione cristiana. La ritroviamo tra i maomettani quale entusiastico misticismo dei Sufi. In Occidente però Giordano Bruno dovette pagare con la morte ignominiosa e crudele il fatto di non aver saputo resistere all'impulso di esprimere quella verità. Tuttavia vediamo anche i mistici cristiani invilupparcisi, loro malgrado, quando e dove compaiono. Il nome di Spinoza è identico con essa.”

Arthur Schopenhauer (1788–1860) filosofo e aforista tedesco

IV, § 22; 1981, pp. 277-278
Il fondamento della morale

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“Il Padre Cristoforo è certamente la persona più alta, più ideale del romanzo, è quella che rivela di più le vie misteriose che congiungono il finito con l'infinito. Pare che in lui la religione non sia, a così dire, che una forma che ha assunto la sua stoica virtù, il suo sentimento imprescindibile del dovere. Gli altri personaggi, se ebbero qualche merito in terra, ebbero pure in terra la loro ricompensa. Renzo e Lucia hanno sopravvissuto alla peste per unirsi insieme con nodi che non li separeranno più. Don Abbondio ha la consolazione, grandissima per lui, di veder sparire dal mondo colui che lo teneva in tanta paura. L'Innominato vede quelli stessi ch'egli aveva offeso, rispettarlo e riverirlo. Ma il Padre Cristoforo è cacciato, fatto viaggiare lungi da ciò che aveva di più caro; egli va attraverso la vita oscuro, mendico, paziente; egli va a raccogliersi dove sono più guai, dove più l'uomo soffre tra le piaghe e il tanfo, estenuato, col corpo oppresso ma coll'anima pronta e placida. Il nostro cuore che è affezionato a lui, che lo ammira, gode di vederlo uscire da tanta miseria, e appena ci si sottrae all'occhio qui sulla terra, noi non possiamo a meno di vederlo in cielo. È il Padre Cristoforo solo, adunque, che ci eleva l'anima a dire: dove e quando che sia la virtù non può fallire a una ricompensa. Se questo non fosse vero, la vita sarebbe un campo di guerra e di dolori spaventosi. L'anima ne sarebbe atterrita, ella non vorrebbe sostenerla. Dimenticate il cappuccio di P. Cristoforo, dimenticate i suoi zoccoli e la sua sporta che vi hanno talvolta fatto adirare, e troverete in lui un filosofo: non di coloro che gridano nelle cattedre per raccogliere a sera i plausi nei circoli, ma caritatevole e umile, e non rimane del cappuccino che quella cieca obbedienza colla quale lascia la contrada e Renzo e Lucia negli impacci.”

Giovita Scalvini (1791–1843) scrittore, poeta e patriota italiano

Origine: Foscolo, Manzoni, Goethe, pp. 245-246; in 1973, pp. 265-266

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“Il giorno del Big Bang non è lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro ad uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine, noi, alla velocità cui stiamo andando proprio grazie al denaro, lo stiamo vertignosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte come specie. Se il futuro è infinito ed illimitato, lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L'impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi propri in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O forse, in un moto circolare, niciano, einsteniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell'immenso debito di cui lo abbiamo caricato. Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c'è, sul niente, sul Nulla. In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose e oniriche dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. Quel giorno il denaro non ci sarà più. Perché non avremo più futuro, nemmeno da immaginare. Ce lo saremo divorato.”

Massimo Fini (1943) giornalista, scrittore e drammaturgo italiano

Origine: Da Il denaro, sterco del demonio, Marsilio, 1998.

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“Ho bisogno di cielo… | Io chiudo gli occhi | e sono infine | nell' infinito.”

Pietro Nigro (1939) poeta italiano

da Dentro, qualcosa, vv. 18-21
L' attimo e l' infinito

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“Usanza sola è quella | Che infinite pazzie copre e difende.”

Pietro Nelli (1672–1740) pittore italiano morto nel 1740

I, V, A Sansedonio
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Origine: Citato in Harbottle, p. 435.

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“Il complicato disegno sui pavimenti del Castello del Cristallo Oscuro rappresentava un sentiero. Chiunque lo vedeva non aveva dubbi in proposito, ma quello che veniva lasciato all'interpretazione individuale era il punto d'inizio e quello d'arrivo, oltre allo scopo del tragitto.
Con le sue biforcazioni e intersecazioni, i suoi archi, i suoi cerchi e le sue spirali che portavano di stanza in stanza, avrebbe potuto essere interpretato, secondo un modo di vedere trascendentale, come la strada che un pellegrino doveva percorrere per raggiungere i più alti gradi dell'illuminazione. Il viaggiatore, fatto in origine di materia bruta, si sarebbe a poco a poco elevato fino a diventare un puro spirito, senza però mai procedere in linea retta ma seguendo un percorso contorto, che continuava anche quando pareva che il percorso fosse stato compiuto. (Perché anche l'anima, fatta di puro spirito, ha ancora dei compiti da assolvere, e per questo il ciclo del disegno dei pavimenti si snodava all'infinito.)
Gli Skeksis, tuttavia, non la pensavano a questo modo. Il presupposto che la pura spiritualità fosse superiore alla materia bruta era qualcosa che sfuggiva alla loro comprensione. Uno dei significati del labirinto fu chiaro ai loro occhi il giorno successivo a quello dei funerali dell'Imperatore: era la via che conduceva al trono.
Colui che aspirava a stringere fra gli artigli lo scettro, sapeva come seguirne il tracciato. Doveva farlo con apparente umiltà, con rispetto, dimostrando di volersi sottomettere a una debita disciplina. Così quei tre – il Maestro delle Cerimonie, il Generale dei Garthim e il Ciambellano – stavano percorrendo da alcune ore il labirinto, con la dovuta solennità, sotto lo sguardo attento degli altri Skeksis. I tre seguivano le circonvoluzioni del percorso, ne studiavano le difficoltà, si soffermavano alle biforcazioni, e scoprivano infine che portavano invariabilmente al punto di partenza.”

Dark Crystal

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“Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così continua il cammino in un'attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualcosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa in tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una all'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alla nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa in tempo a tornare.”

The Tartar Steppe

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“Tutta quella città… non se ne vedeva la fine… /
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? /
E il rumore /
Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema /
Col mio cappello blu /
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino /
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino /
Primo gradino, secondo /
Non è quel che vidi che mi fermò /
È quel chevidi /
Puoi capirlo, fratello?,… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne /
C’era tutto /
Ma non c’era. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo /
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro., sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. sei infinito. a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu /
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me /
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi /
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita /
Se quella tastiera è infinita, allora /
Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio /
Cristo, ma le vedevi le strade? /
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una /
A scegliere una donna /
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire /
Tutto quel mondo /
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce /
E quanto ce n’è /
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla… /
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare.”

Novecento. Un monologo

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“Mi sento come… infinito.”

The Perks of Being a Wallflower

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“Astenersi dal giudicare implica un’infinita speranza.”

Francis Scott Fitzgerald (1896–1940) scrittore e sceneggiatore statunitense

The Great Gatsby

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“Con la fantasia, Bridget tornò mille volte a quel primo bacio appassionato, rendendolo sempre più perfetto.
Ma non andò oltre.
Per molte ore, dopo avere lasciato Eric, rimase sveglia nel sacco a pelo.
Tremava.
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Ecco che cominciavano a scendere.
Lacrime di tristezza, di disagio, d’amore.
Erano il genere di lacrime che le venivano quando si sentiva troppo colma: aveva bisogno di fare un po’ di spazio.
Guardò il cielo.
Era più grande, quella notte.
Quella notte i suoi pensieri si avventuravano negli spazi infiniti e, come diceva Diana, non trovavano alcun ostacolo su cui rimbalzare per tornare indietro.
Andavano avanti e avanti, finché nulla sembrava più reale.
Neppure il pensiero. Bridget si era stretta a Eric, piena di desiderio, insicura, spavalda e impaurita.
C’era una tempesta nel suo corpo, e quando era diventata troppo violenta, lei era andata via. Si era lasciata levitare fino alle fronde delle palme.
Lo aveva già fatto altre volte.
Avrebbe lasciato affondare la nave senza il capitano.
Quello che era successo con Eric era insondabile, indescrivibile.
Ora tutto questo era lì con lei, incerto, desideroso di qualcuno che se ne prendesse cura: ma Bridget non sapeva come.
Richiamò indietro i propri pensieri, raccogliendoli ad anello come il filo di un aquilone.
Si arrotolò il sacco a pelo sotto il braccio e tornò furtiva alla baracca. Si distese sul letto.
Quella notte non avrebbe concesso ai suoi pensieri di avventurarsi oltre le travi sbiadite del soffitto”

Ann Brashares (1967) scrittrice statunitense

The Sisterhood of the Traveling Pants

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“Non ti crucciare, don Camillo" sussurrò il Cristo. "Lo so che il vedere uomini che lasciano deperire la grazia di Dio è per te peccato mortale perchè sai che io sono sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Ma bisogna perdonarli perchè non lo fanno per offendere Dio. Essi cercano affannosamente la giustizia in terra perchè non hanno più fede nella giustizia divina, e ricercano affannosamente i beni della terra perchè non hanno fede nella ricompensa divina. E perciò credono soltanto a quello che si tocca e si vede, e le macchine volanti sono per essi angeli infernali di questo inferno terrestre che essi tentano invano di far diventare un Paradiso. E' la troppa cultura che porta all'ignoranza, perchè se la cultura non è sorretta dalla fede, a un certo punto l'uomo vede soltanto la matematica delle cose. E l'armonia di questa matematica diventa il suo Dio, e dimentica che è Dio che ha creato questa matematica e questa armonia. Ma il tuo Dio non è fatto di numeri, don Camillo, e nel cielo del tuo Paradiso volano gli angeli del bene. Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno, quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico, e allora l'uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull'infinito, e nell'infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita. E odierà le machine che hanno ridotto il mondo ad una manciata d numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo. Quindi rassicurati: la tua bicicletta e il tuo motorino non corrono per ora nessun pericolo.”

The Little World of Don Camillo

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