Frasi su orecchio
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“[…] asino, voi amate ricoprirvi della pelle del leone per sembrare animale differente dalla vostra vera natura. Disgraziatamente per voi, le orecchie spuntano dovunque, cade la maschera e la verità vi mostra nella vostra laida turpitudine.”

Giacomo Casanova (1725–1798) avventuriero, scrittore, diplomatico, agente segreto italiano

lettera III, pp. 19-21 https://books.google.it/books?id=7pJJtv_QXiUC&pg=PA19
Lettere a un maggiordomo

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“Violino (s. m.). Strumento per infastidire le orecchie umane con la frizione esercitata da una coda di cavallo sulle viscere di un gatto.”

Ambrose Bierce (1842–1914) scrittore, giornalista e aforista statunitense

1988, p. 180
Dizionario del diavolo

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“Quando si è pigiati nella folla, si ha la sensazione che tutti vi guardino nel buco delle orecchie.”

Jules Renard (1864–1910) scrittore e aforista francese

4 ottobre 1892; Vergani, p. 60
Diario 1887-1910

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“Fu un soldato. Fu un pastore. Fu un mendicante e fu un sovrano. Fu contadino, menestrello, marinaio, falegname. Nacque, visse e morì come Aiel. Morì pazzo, morì putrido, morì di malattia, d'incidente, di vecchiaia. Fu messo a morte davanti a una folla esultante. Si proclamò il Drago Rinato e sventolò nel cielo il proprio stendardo; si sottrasse al Potere e si nascose; visse e morì senza sapere di poterlo toccare. Tenne a bada per anni la pazzia e il male; cedette nel periodo di due inverni. A volte Moiraine venne a portarlo via dai Fiumi Gemelli, da solo o con i suoi amici sopravvissuti alla Notte d'Inverno; a volte non venne. A volte vennero altre Aes Sedai. A volte quelle dell'Ajah Rossa. Egwene lo sposò; Egwene, dal viso austero, con la stola da Amyrlin Seat, guidò le Aes Sedai che lo domarono; Egwene, con le lacrime agli occhi, gli piantò nel cuore un pugnale e nel morire lui la ringraziò. Amò altre donne, sposò altre donne. Elayne; Min; la bionda figlia d'un contadino incontrata lungo la strada per Caemlyn; donne che non aveva mai visto prima di vivere queste vite possibili. Cento vite. Mille. Tante da non riuscire a contarle. E al termine di ogni vita, mentre giaceva in punto di morte, mente esalava l'ultimo respiro, una voce gli bisbigliò all'orecchio: «Ho vinto di nuovo, Lews Therin.»”

Robert Jordan (1948–2007) scrittore statunitense

capitolo 37
La ruota del tempo. La grande caccia

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“[Le tesi di Ario] chi ad udirle non se ne tiene lontano e tura le orecchie per tenerle immuni dalla sozzura di tali parole?”

Alessandro di Alessandria (250–326) vescovo egiziano

Origine: Da Lettera a tutti i vescovi, traduzione di M. Simonetti; citato in Jacques Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia, 1998, p. 144. ISBN 88-399-0101-9

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“Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: "Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?" Ho risposto che l'unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.
[…] cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abandonare questa valle di coglioni?"
Critone mi ha allora domandato: "Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?" Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent'anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.
Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un'arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l'anellino all'orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.
[…] È naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena”

Umberto Eco (1932–2016) semiologo, filosofo e scrittore italiano

anzi, è splendido) morire.
Critone mi ha allora detto: "Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione". "Vedi", gli ho detto, "sei già sulla buona strada."
Origine: Da Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo, La bustina di Minerva, L'Espresso, 12 giugno 1997; citato in Umberto Eco: "Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo" http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/20/news/umberto-eco-come-prepararsi-serenamente-alla-morte-sommesse-istruzioni-a-un-eventuale-discepolo-1.251268, Espresso.repubblica.it, 20 febbraio 2016.

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“Fin dal primo versetto del Qohèlet si viene trasportati da una corrente ininterrotta di suoni, incantatoria, quasi ipnotica […]. Si hanno le orecchie in estasi e al tempo stesso si è totalmente vigili.”

Doris Lessing (1919–2013) scrittrice inglese

Origine: Da Introduzione, traduzione di Anna Nadotti, in Qohèlet, Einaudi, Torino, 2000, p. VIII. ISBN 88-06-15180-0

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“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!"”

Origine: Lessico famigliare, p. 20

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“Un popolo che si getta nell'avvenire, trascurando, disconoscendo le sue tradizioni, è paragonabile ad un esercito che fa un'avanzata tagliandosi le retrovie.”

Vincenzo Cardarelli (1887–1959) poeta e scrittore italiano

da Parole all'orecchio, Appendice di prose, frammento III, 5; in Opere, p. 934

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“No, quello che vedete non è un'aquila, guardategli le orecchie.”

Arthur Schopenhauer (1788–1860) filosofo e aforista tedesco

Origine: L'arte di insultare, p. 76

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“Apriamo l'occhio (e chiudiamo l'orecchio)… Il gusto francese non ammetterà mai questi giganti pneumatici ad altro onore che servire da pubblicità a Bibendum.”

Claude Debussy (1862–1918) compositore francese

Citato in Lucien Rebatet, Une histoire de la musique

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“Capodanno nella lista di Rocco Schiavone veniva al terzo posto delle peggiori date del calendario. Al primo posto c'era il suo compleanno, che lui odiava in maniera totale, violenta, omicida. Gli auguri li considerava degli insulti. E non era un atteggiamento preso dopo i quaranta, non era una cosa da scambiare con la senilità incipiente e col tempo che passa sempre più veloce. Lui già a sei anni, quando giocava per le strade di Trastevere, poteva spaccare teste e setti nasali se un amichetto o un parente gli avesse fatto i fatidici auguri il 7 di marzo.
Al secondo posto c'era la Pasqua. Rocco la odiava per tre motivi. Il primo era che non arrivava mai lo stesso giorno. Cambiava ogni anno, e questo la rendeva imprevedibile e micidiale come un killer professionista. Il secondo che, proprio per la sua imprevedibilità, faceva arrivare le colombe e le uova mentre ancora stavi digerendo il panettone di Natale. Il terzo era di natura squisitamente teologica. Sapete quando è nato il figlio di Dio. Possibile che non siete mai riusciti a capire quand'è che è risorto? Al terzo posto c'era il Capodanno. Dovere per forza andare da qualche parte a fare il conto alla rovescia, stappare la bottiglia, urlare auguri a squarciagola e fingere di divertirsi e essere sereno. E poi c'erano i botti. Nel suo personalissimo codice la pena per i costruttori e i fruitori dei fuochi di Capodanno andava da un anno di reclusione ai lavori forzati in una miniera in Cile, in base ai botti che utilizzavano, al rumore che provocavano e ai soldi che riuscivano a sprecare in sei minuti. Gente che lesina sulla frutta e la verdura tutto l'anno per poi scoppiare centinaia di euro in pochi minuti ferendosi, facendosi danni, spaccando oggetti e coglioni, lui la detestava. Il primo gennaio invece era uno dei giorni più belli dell'anno. Nessuno per le strade, nessuno nei negozi, tutti a dormire gonfi di cibo e vino da supermercato, con le bocche secche e le orecchie che ancora fischiano per la musica a palla e i tricchetracche sul balcone. E lui solo, a Ostia a passeggiare sulla spiaggia.”

Antonio Manzini (1964) attore, sceneggiatore e regista italiano

da L'accattone
Cinque indagini romane per Rocco Schiavone, L'accattone

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“Caro babbo, lo sai che per me tu eri l'esempio vivente di tutte le perfezioni? Il tuo naso era perfetto, le tue orecchie erano perfette, la forma della tua testa era perfetta, la scriminatura che divideva da una parte i tuoi pochi capelli era perfetta, e tu, mi ricordavi per tutte queste perfezioni che ti attribuivo, un attore, di quel cinema anni Trenta che cominciò a sfornare una serie di divi a cui tutti avremmo voluto assomigliare. C'era solo una piccola cosa in te che non era perfetta: l'unghia dell'indice della tua mano sinistra era leggermente deformata, era un po' più spessa delle altre e incarnita. Normalmente non si notava, ma i bambini hanno un occhio speciale per notare anche la più lieve imperfezione, e io l'avevo notata e ti avevo domandato come mai quell'unghia era diversa dalle altre. Tu mi dicesti che quando eri piccolo un colpo di martello sbagliato ti aveva spappolato la punta del dito e che l'unghia rimarginandosi era diventata così. Io pensai solo al dolore che dovevi aver provato e poi pensai che le unghie delle altre tue dita erano tutte belle tonde e talmente curate che sembravano appena uscite dalla manicure. Più tardi, quando non ero più un bambino ma un adolescente che cominciava a toccarsi facendo fantasie, non so perché una volta mi sorpresi a pensare che forse la storia del colpo di martello non era vera e che quel dito poteva essere difettoso dalla nascita. Perché lo pensai? Forse perché oscuramente sentivo di aver ereditato da te un'imperfezione che non riguardava solo il mio corpo, ma una parte esigente di me che non avevo ancora bene individuata.”

da Lettera al padre, pp. 79-80
L'amorosa inchiesta

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“Ti aspetti gloria?» disse Ba'alzamon. «Potere? Ti hanno detto che l'Occhio del Mondo sarà al tuo servizio? Quale gloria e quale potere toccano a un burattino? Le stringhe che ti muovono sono state intessute da secoli. Tuo padre fu scelto dalla Torre Bianca, come uno stallone legato alla cavezza e condotto al suo compito. Tua madre non era altro che una fattrice, per i loro piani. E questi piani portano alla tua morte.»
Rand strinse i pugni. «Mio padre è un brav'uomo e mia madre era una donna per bene. Non parlare di loro!»
Le fiamme risero. «C'è del coraggio in te, dopotutto. Forse sei proprio tu, quello che cerco. Ma il coraggio ti gioverà ben poco. L'Amyrlin Seat ti userà, finché non sarai consumato, proprio come furono usati Davian e Yurian Stonebow e Guaire Amalasan e Raolin Darksbane. Proprio come è usato Logain. Finché di te non resterà niente.»
«Non so…» Rand agitò la testa da una parte e dall'altra. Quel solo momento di pensiero chiaro, nato dall'ira, era sparito. I suoi pensieri continuavano a turbinare. Rand ne afferrò uno, zattera nel gorgo. Si costrinse a parlare, con voce man mano più forte. «Tu… sei imprigionato… a Shayol Ghul. Tu e tutti i Reietti… imprigionati dal Creatore fino alla fine del tempo.»
«La fine del tempo?» lo schernì Ba'alzamon. «Tu vivi come uno scarafaggio sotto la pietra e pensi che il tuo fango sia l'universo. La morte del tempo mi porterà un potere che non puoi nemmeno sognare, verme.»
«Tu sei imprigionato…»
«Sciocco, non sono mai stato imprigionato!» I fuochi del suo viso ruggirono con tanto calore che Rand indietreggiò, riparandosi con le mani. Il sudore sul palmo si asciugò per il calore. «Fui a fianco di Lews Therin Kinslayer, quando compì il misfatto che gli valse il soprannome. Fui io a dirgli di uccidere la propria moglie e i propri figli e tutta la propria stirpe e ogni persona che amava o da cui era amato. Fui io a dargli il momento di lucidità perché sapesse che cosa aveva fatto. Hai mai sentito un uomo urlare fino a perdere l'anima, verme? Poteva colpirmi, allora. Non avrebbe vinto, ma poteva tentare. Invece chiamò su di se il suo prezioso Potere, tanto che la terra si aprì e innalzò Montedrago per segnare la sua tomba. Mille anni dopo, mandai i Trolloc a depredare il meridione e per tre secoli essi devastarono il mondo. Quelle stolte e cieche di Tar Valon dissero che ero stato infine sconfitto, ma il Secondo Patto, il Patto delle Dieci Nazioni, era infranto senza rimedio e chi rimase a opporsi a me, allora? Io sussurrai nell'orecchio di Artur Hawkwing e la terra Aes Sedai morì in lungo e in largo. Io sussurrai di nuovo e il Gran Monarca mandò i suoi eserciti al di là dell'oceano Aryth e del Mare del Mondo, e con questo atto sancì due condanne. La condanna del suo sogno di una sola terra e di un solo popolo, e una condanna ancora da venire. Ero al suo capezzale, quando i consiglieri gli dissero che solo le Aes Sedai potevano salvargli la vita. Parlai, e lui ordinò d'impalare i consiglieri. Parlai, e le ultime parole del Gran Monarca furono l'ordine di distruggere Tar Valon. Se uomini del valore di costoro non hanno potuto opporsi a me, quale possibilità hai tu, rospo acquattato accanto a una pozza della foresta? Servirai me, oppure ballerai ai fili delle Aes Sedai, fino alla tua morte. E poi sarai mio! I morti appartengono a me!”

Robert Jordan (1948–2007) scrittore statunitense

Rand e Ba'alzamon, capitolo 14
La ruota del tempo. L'occhio del mondo

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“Ai popolari e blandi | suoni de le tue corde | s'apron le catapecchie | de l'arte, e invan li spandi | per le dorate, vecchie | aule dei grandi e sorde: | Oh, le orecchie dei grandi | Spesso sono grandi orecchie.”

Francesco Proto (1815–1892) politico italiano

In difesa di P. P. Parzanese, p. 69
In Epigrammi del marchese di Caccavone e del Duca di Maddaloni, a cura di Giuseppe Porcaro

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“Adelchi una Musa ce l'ha, perché sembra che sia Dio a soffiargli nelle orecchie e nel cuore titanismo e passione.”

Carmelo Bene, citato in Adelchi – Rizzoli, a cura di Alberto Giordano
Adelchi, Citazioni sull'opera

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“Brunetta è il classico fanatico: uno che quando parla gli saltano uno dopo l'altro i freni inibitori, e gli esce fumo dalle orecchie. […] In questo Brunetta (come parecchi ex socialisti, ahimè) è il berlusconiano perfetto: pur di non dubitare di se stesso, attribuisce ogni problema alla malvagità del Nemico.”

Michele Serra (1954) giornalista, scrittore e autore televisivo italiano

da Demagogia al governo http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-29/serra-governo/serra-governo.html, 20 settembre 2009
la Repubblica

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“Archimede ti si rannicchia vicino, una sera, e dice all'orecchio: non sono mai esistito, quello di duemila anni fa era solo un pazzo da dimenticare.”

Paolo Rumiz (1947) giornalista e scrittore italiano

Origine: Annibale. Un viaggio, p. 132

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“Vide i busti e i profili dei soldati che cavalcavano di fianco alla carrozza, e la folla lungo il percorso: i pugni alzati, e facce stravolte con le bocche spalancate a insultare e a maledire e a invocare una morte, la sua morte! Proseguendo verso Porta San Gaudenzio, s'accorse che per non sentire quelle grida bastava non ascoltarle. Guardava i volti e i corpi degli uomini là fuori come avrebbe guardato dei pesci in una boccia divetro; li vedeva lontani ed anche strani, anzi si meravigliava di non aver mai fatto caso a quei dettagli che ora le sembravano così assurdi; di non essersi mai stupita in precedenza di quelle forme, considerandole – come tutti – inevitabili, e assolutamente sensate! Di averle sempre credute… normali! Quei cosiddetti nasi, quelle orecchie…. Perché eran fatte così? Quelle bocche aperte con dentro quei pezzi di carne che si muovevano. Che insensatezza! Che schifo! E quell'esplosione incontenibile di odio, da parte di individui che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmmeno che lei esistesse e ora volevano il suo sangue, le sue viscere, reclamavano d'ammazzarla loro stessi, lì sul momento e con le loro mani… C'era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c'era, perché accadeva? Ecco, pensava: io sto qui, e non si perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un'energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose, come il mal caduco scuoteva il povero Biagio quando lo coglieva per strada. Anche la tanto celebrata intelligenza dell'uomo non era altro che un vedere e non vedere, un raccontarsi vane storie più fragili d'un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l'inferno…”

cap. 30, p. 291
La chimera

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“I migliori discorsi sono quelli che feriscono la mente, non l'orecchio.”

Fausto Cercignani (1941) filologo, critico letterario e poeta italiano

p. 34

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“E solo per un attimo avevo raggiunto quell'apice d'estasi che avevo sempre desiderato raggiungere, che era il completo passaggio attraverso il tempo cronologico nelle ombre senza tempo, e stupore nella desolazione del regno mortale, e la sensazione di morte che mi batteva ai calcagni perché andassi avanti, con un fantasma che stava alle calcagna di se stesso, e io che correvo verso un trampolino dal quale si tuffavano tutti gli angeli per volare nel vuoto sacro della vacuità non creata, le potenti e inconcepibili radiazioni che splendono nella luminosa Essenza Mentale, innumerevoli regioni del loto che sbocciavano in un magico sciamare di falene nel cielo. Potevo sentire un indescrivibile rombo ribollente che non era nelle mie orecchie ma dovunque e non aveva niente a che fare col suono. Capii che ero morto ed ero tornato alla luce innumerevoli volte ma solo non me lo ricordavo, soprattutto perché i passaggi dalla vita alla morte e di nuovo alla vita sono così fantomaticamente facili, una magica azione per nulla, come cadere addormentati e svegliarsi di nuovo un milione di volte, la pura casualità e la profonda ignoranza di ciò. Capii che era solo a causa della stabilità della Mente intrinseca che aveva luogo questo lieve ondeggiare del nascere e del morire, come l'azione del vento su una distesa di acqua pura, serena, simile a uno specchio. Provavo un senso di benedizione dolce, travolgente, come un grosso getto di eroina nella vena principale; come un sorso di vino nel tardo pomeriggio che ti fa rabbrividire; i piedi mi formicolavano. Mi pareva che sarei morto da un momento all'altro. Ma non morii…”

On the Road

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“Comunque ho lasciato gli altri a pallavolare in palestra e sono uscita dalla scuola, c'era un sole pallido color miele. Sono andata al bar di fronte, a vedere le facce. Come faccio spesso, mi sono tappata le orecchie per concentrarmi e capire cosa succedeva intorno. E mi sono sentita strana. Qual'era il motivo del mio disagio? E quale segrato nascondeva la gente seduta?
L'uomo corpulento con la fronte sudata, che sbarrava gli occhi in segno di meraviglia, e disegnava rabbia con la mano. E l'uomo piccolo che ne seguiva il discorso scuotendo la testa e ricalcando i gesti dell'altro. E la giovane carica di gioielli come una Cleopatra che sibilava a bassa voce contro qualcuno, un veleno d'astio che le sue amiche assorbivano come un balsamo ristoratore, ammiccando tra loro per dividere il piacere. O il ragazzo che litigava ad alta voce con la ragazza, costringendola a guardarlo negli occhi, mentre lei si mordeva la mano per la vergogna, col volto rigato di lacrime. O la tavolata dove un giovane zerbinotto raccontava e tutti ridevano. O i due ragazzi che parlavano probabilmente di sport, uno battendo le mani su un giornale, l'altro interrompendolo con una voce roca.
E di colpo ho capito.
Quei signori e signore e ragazzi e ragazze seduti, tutti avevano ragione. E parlandone, si rafforzavano in questa loro certezza. E la loro ragione era costruita sul dileggio, sulla rovina, sul disprezzo degli altri. E più parlavano, più la ragione cresceva e chiedeva il suo tributo di parole, di minacce, di gesti. E sempre di più gli altri, quelli dalla parte del torto, diventavano lontani e miserabili. Ma guardando oltre la strada, nei bar di fronte, altra gente era seduta e anche loro avevano ragione. Una gigantesca, unica ragione divideva il mondo in quelli che l'avevano, cioè tutti, e gli altri, e cioè tutti.
E io, che sentivo di non avere ragione, cosa avrei fatto?
Sono tornata in classe e c'era aria pesante. Marra e Gasparrone avevano insultato Zagara chiamandolo terrone e figlio di galeotto. Lui li aveva assaltati con un tirapugni fatto con la maniglia di una porta. Erano finiti tutti e tre dal preside. Quante battaglie stupide e quante nobili e giuste ci sono nella giornata media di ognuno?”

Stefano Benni (1947) scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano

Margherita Dolce Vita

“Nel sole di marzo, mentre era seduto su una catasta di ceppi di faggio che scricchiolavano per il caldo, avvenne che egli pronunciasse per la prima volta la parola «legno». Aveva già visto il legno centinaia di volte, aveva sentito la parola centinaia di volte. La capiva anche, infatti d'inverno era stato mandato fuori spesso a prendere legna. Ma il legno come oggetto non gli era mai sembrato così interessante da darsi la pena di pronunciarne il nome. Ciò avvenne soltanto quel giorno di marzo, mentre era seduto sulla catasta. La catasta era ammucchiata a strati, come una panca, sul lato sud del capannone di Madame Gaillard, sotto un tetto sporgente. I ceppi più alti emanavano un odore dolce di bruciaticcio, dal fondo della catasta saliva un profumo di muschio, e dalla parete d'abete del capannone si diffondeva nel tepore un profumo di resina sbriciolata.
Grenouille era seduto sulla catasta con le gambe allungate, la schiena appoggiata contro la parete del capannone, aveva chiuso gli occhi e non si muoveva. Non vedeva nulla, non sentiva e non provava nulla. Si limitava soltanto ad annusare il profumo del legno che saliva attorno a lui e stagnava sotto il tetto come sotto una cappa. Bevve questo profumo, vi annegò dentro, se ne impregnò fino all'ultimo e al più interno dei pori, divenne legno lui stesso, giacque sulla catasta come un pupazzo di legno, come un Pinocchio, come morto, finché dopo lungo tempo, forse non prima di una mezz’ora, pronunciò a fatica la parola «legno». Come se si fosse riempito di legno fin sopra le orecchie, come se il legno gli arrivasse già fino al collo, come se avesse il ventre, la gola, il naso traboccanti di legno, così vomitò fuori la parola. E questa lo riportò in sé, lo salvò, poco prima che la presenza schiacciante del legno, con il suo profumo, potesse soffocarlo. Si alzò a fatica, scivolò giù dalla catasta, e si allontanò vacillando come su gambe di legno. Per giorni e giorni fu preso totalmente dall'intensa esperienza olfattiva, e quando il ricordo saliva in lui con troppa prepotenza, borbottava fra sé e sé «legno, legno», a mo' di scongiuro.”

Perfume: The Story of a Murderer

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“Vale la pena soffermarci su quest’incubo [della fine della letteratura e delle arti], per come Borges ce lo racconta in una sua conversazione sui sogni e gli incubi.
Il terribile sogno è del poeta inglese William Wordsworth e si trova nel secondo [rectius: quinto] libro del poema The Prelude — un poema autobiografico, come dice il sottotitolo. Fu pubblicato nel 1850, l’anno stesso della morte del poeta. Allora non si pensava, come invece oggi, a un possibile cataclisma cosmico che annientasse ogni grande opera umana, se non l’umanità interamente.
Ma Wordsworth ne ebbe la preoccupazione e, in sogno, la visione.
Ed ecco come Borges l’assume e riassume nel suo discorso: “Nel sogno la sabbia lo circonda, un Sahara di sabbia nera. Non c’è acqua, non c’è mare. Sta al centro del deserto — nel deserto si sta sempre al centro — ed è ossessionato dal pensiero di come fare per sfuggire al deserto, quando vede qualcuno vicino a lui. Stranamente, è un arabo della tribù dei beduini, che cavalca un cammello e ha nella mano destra una lancia.
Sotto il braccio sinistro ha una pietra; nella mano una conchiglia. L’arabo gli dice che ha la missione di salvare le arti e le scienze e gli avvicina la conchiglia all’orecchio; la conchiglia è di straordinaria bellezza. Wordsworth ci dice che ascoltò la profezia (‘in una lingua che non conoscevo ma che capii’): una specie di ode appassionata, che profetizzava che la Terra era sul punto di essere distrutta dal diluvio che l’ira di Dio mandava. L’arabo gli dice che è vero, che il diluvio si avvicina, ma che egli ha una missione: salvare l’arte e le scienze. Gli mostra la pietra. La pietra, stranamente, è la Geometria di Euclide pur rimanendo una pietra. Poi gli avvicina la conchiglia, che è anche un libro: è quello che gli ha detto quelle cose terribili. La conchiglia è, anche, tutta la poesia del mondo, compreso, perche' no?, il poema di Wordsworth.
Il beduino gli dice: ‘Devo salvare queste due cose, la pietra e la conchiglia, entrambi libri’. Volge il viso all’indietro, e vi è un momento in cui Wordsworth vede che il volto del beduino cambia, si riempie di orrore. Anche lui si volge e vede una gran luce, una luce che ha inondato metà del deserto. Questa luce è quella dell’acqua del diluvio che sta per sommergere la Terra. Il beduino si allontana e Wordsworth vede che è anche don Chisciotte, che il cammello è anche Ronzinante e che allo stesso modo che la pietra è il libro e la conchiglia il libro, il beduino è don Chisciotte e nessuna delle due cose ed entrambe nello stesso tempo”…
l’immagine di don Chisciotte che si allontana invincibilmente richiama quella dipinta da Daumier, forse contemporaneamente. E ci è lecito, in aura borgesiana, chiederci se il poeta e il pittore non abbiano fatto lo stesso sogno.”

Leonardo Sciascia (1921–1989) scrittore e saggista italiano

Ore di Spagna