Frasi su dopo
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“Quando dici una bugia, dopo devi essere coerente. Lo sanno tutti.”

Markus Zusak (1975) scrittore australiano

I Am the Messenger

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“L’autobus correva lungo una striscia di cemento molto stretta a pelo dell’acqua senza parapetto, niente; tutto lì. L’autista si appoggiava allo schienale e passava rombando su quella stretta striscia di cemento circondata dall’acqua e tutti i passeggeri dell’autobus, venticinque o quaranta o cinquantadue persone si fidavano di lui, ma io no. Ogni tanto c’era un nuovo autista e io pensavo, come li scelgono, questi figli di puttana? L’acqua è profonda su tutt’e due i lati e basta un piccolo errore per andare tutti al creatore. Era ridicolo. Mettiamo che quella mattina avesse litigato con la moglie. O che avesse il cancro. O che vedesse la Madonna. O che avesse i denti cariati. Qualunque cosa. Bastava un niente. Avrebbe potuto impazzire. Buttarci tutti di sotto. Sapevo che se ci fossi stato io, al suo posto, avrei preso in considerazione la possibilità di trascinare tutti in acqua. Mi sarebbe piaciuto. e qualche volta, dopo considerazioni del genere, la possibilità diventa realtà. Per ogni Giovanna d’Arco c’è un Hitler appollaiato dall’altra estremità dell’altalena. La vecchia storia del bene e del male. Ma nessuno di quegli autisti ci buttò mai di sotto. Pensavano soltanto alle rate della macchina, alla partita di baseball, al taglio dei capelli, alle ferie, ai clisteri, alle domeniche in famiglia. In quel branco di merdosi non c’era nemmeno un vero uomo. Arrivavo sempre al lavoro con la nausea ma sano e salvo. Il che dimostra che Schumann era più relativo di Shostakovich…”

Factotum

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“La vita, dopo tutto, appare molto più brillante se la si considera da un solo punto di vista”

Francis Scott Fitzgerald (1896–1940) scrittore e sceneggiatore statunitense

The Great Gatsby

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“Si indicava lo scanno dove sedevano gomito a gomito i sette rappresentanti dell'Haute Garonne, che invitati a pronunciarsi sul verdetto di condanna di Luigi XVI, avevano così proposto uno dopo l'altro: Mailhe, la morte. Delmas, la morte. Projean, la morte, Calès, la morte, Ayral, la morte, Julien, la morte. Desancy, la morte. Eco fatale che riempie in sé tutta la storia, dal giorno in cui fu instaurata la giustizia umana, eco sepolcrale tra le mura di tribunali. Si indicavano a dito gli uomini che avevano espresso il loro tragico giudizio, in tanta confusione; Paganel, che aveva detto: «Un re non può essere utile che con la sua morte. Dunque, a morte»; Millaud, il quale aveva gridato: «Se la morte non esistesse, oggi bisognerebbe inventarla»; il vecchio Raffron du Truillet, che aveva detto: «La morte, al più presto»; Goupilleau, il quale aveva urlato:«Subito al patibolo. Ogni lentezza aggrava la morte»; Sièyès, che aveva espresso con funerea concisione il suo voto: «La morte»; Thuriot, che si era opposto alla proposta di Buzot, tendente a proporre un appello al popolo: « È mai possibile? Le assemblee primarie? È mai credibile? Quarantamila tribunali, processo senza fine. La testa di Luigi XVI avrebbe tempo di incanutire, prima di cadere»; Augustin-Bon Robespierre, che, dopo il voto del fratello, aveva gridato: « Io non riconoscerei umanità che sgozzasse i popoli e perdonasse ai despoti. A morte! Chiedere un rinvio vuol dire appellarsi ai tiranni e non al popolo »; Foussedoire, sostituto di Bernardin de Saint-Pierre, il quale aveva sentenziato: «Sento tutto l'orrore di un'effusione di sangue, ma il sangue di un re non è sangue di creatura umana. A morte!»
Jean-Bon Saint-André che aveva detto: «La libertà dei popoli si identifica con la morte dei tiranni»;
Lavicomterie, assertore di questa formula: «Finchè un tiranno respira, la libertà soffoca. A morte!»; Chateauneuf-Randon, il quale aveva gridato: «Morte a Luigi l'ultimo!» Guyardin che vaeva espresso questo parere: «Deve essere giustiziato alla Barrière – Renversée!» volendo indicare la barriera del Trono; Tellier, il quale aveva detto: «Si deve fondere un cannone che abbia il calibro della testa di Luigi XVI, per combattere i nostri nemici».”

Victor Hugo (1802–1885) scrittore francese

Ninety-Three

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“EDIPO - Non venirmi più a dire che non ho fatto ciò che era meglio, non darmi più consigli. Io non so con quali occhi, vedendo, avrei guardato mio padre, una volta disceso nell'Ade, o la misera madre: verso entrambi ho commesso atti, per cui non sarebbe bastato impiccarmi. O forse potevo desiderare la vista dei figli, nati come nacquero? No davvero, mai, per i miei occhi; e neppure la città, né le mura, né le sacre immagini degli dèi: di tutto ciò io sventuratissimo, l'uomo più illustre fra i Tebani, privai me stesso, proclamando che tutti scacciassero l'empio, l'individuo rivelato agli dèi impuro e figlio di Laio. Dopo avere denunziato così la mia infamia, dovevo guardare a fronte alta questi cittadini? No, affatto: anzi, se fosse stato possibile otturare nelle mie orecchie anche la fonte dell'udito, non avrei esitato a sbarrare del tutto questo misero corpo, così da essere sordo, oltre che cieco. È dolce per l'animo dimorare fuori dai mali. Ahi, Citerone, perché mi accogliesti? Perché, dopo avermi preso, non mi uccidesti subito, così che io non rivelassi mai agli uomini da chi sono nato? O Polibo e Corinto, e voi, che credevo antiche dimore degli avi, quale bellezza colma di male nutrivate in me: ora scopro d'essere uno sventurato, nato da sventurati! O tre strade e nascosta vallata, o querceto e gola alla convergenza delle tre vie, che beveste il sangue di mio padre, il mio, dalle mie stesse mani versato, vi ricordate di me? Quali delitti commisi presso di voi, e quali altri poi, giunto qui, ancora commisi! O nozze, voi mi generaste: e dopo avermi generato suscitaste ancora lo stesso seme, e mostraste padri, fratelli, figli, tutti dello stesso sangue; e spose insieme mogli e madri, e ogni cosa più turpe che esiste fra gli uomini. Ma, poiché ciò che non è bello fare non bisogna neppure dire, nascondetemi al più presto, per gli dèi, via di qui, o uccidetemi, o precipitatemi in mare, dove non mi vedrete mai più. Venite, non disdegnate di toccare un infelice; datemi ascolto, non temete: i miei mali nessun altro mortale può portarli, tranne me.

Sofocle, Edipo Re [Esodo]”

Sofocle (-496–-406 a.C.) tragediografo ateniese

Oedipus Rex

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“Chi sa ballare alla persiana?” domando. Tutte si voltano a guardare Sanaz. Lei si schermisce, fa di no con la tessta. Cominciamo ad insistere, a incoraggiarla, formiamo un cerchio intorno a lei. Quando inizia a ballare, piuttosto a disagio, battiamo le mani e ci mettiamo a canticchiare. Nassrin ci chiede di fare più piano. Sanaz riprende, quasi vergognandosi, a piccoli passi, muovendo il bacino con grazia sensuale. Continuiamo a ridere e a scherzare, e lei si fa più ardita; muove la testa a destra e sinistra, e ogni parte del suo corpo vibra; balla anche con le dita e le mani. Sul suo volto compare un'espressione particolare, spavalda, ammicante, che attrae, cattura, e al tempo stesso sfugge e si nasconde. Appena smette di ballare, tuttavia, il suo potere svanisce.
Esistono varie forme di seduzione, ma quella che emana dalle danze tradizionali persiane è unica, una miscela di impudenza e sottigliezza di cui non mi pare esistano eguali nel mondo occidentale. Ho visto donne di ogni estrazione sociale assumere lo stesso sguardo di Sanaz, sornione, seducente e l'ho ritrovato anni dopo sul viso di Leyly, una mia amica molto sofisticata che aveva studiato in Francia, vedendola ballare al ritmo di una musica piena di parole come naz e eshveh e kereshmeh, che potremmo tradurre con “malizia”, “provocazione”, “civetteria”, senza però riuscire a rendere l'idea.
QUesto tipo di seduzione è al tempo stesso elusiva, vigorosa e tangibile. Il corpo si contorce, ruota su se stesso, si annoda e si snoda. Le mani si aprono e si chiudono, i fianchi sembrano avvitarsi e poi sciogliersi. Ed è tutto calcolato: ogni passo ha il suo effetto, e così il successivo. È un ballo che seduce in un modo che Daisy Miller non si sognava neanche. È sfacciato, ma tutt'altro che arrendevole. Ed è tutto nei gesti di Sanaz. La veste nera e il velo - che ne incorniciano il volto scavato, gli occhi grandi e il corpo snello e fragile - conferiscono uno strano fascino ai suoi movimenti. Con ogni mossa, Sanaz sembra liberarsene: la vesta diventa sempre più leggera, e aggiunge mistero all'enigma della danza.”

Reading Lolita in Tehran

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“«Gesù» disse «non avrò dunque il mio altoparlante?»
«Se è stabilito che tu lo abbia lo avrai. Ma se lo avrai non sarà certo perché tu abbia indotto Dio a mutare quanto prestabilito per farti un favore personale. E Lo dovrai ringraziare solo perché ti avrà concesso la grazia di compiere una azione in accordo con la divina armonia che regola ogni cosa dell'universo. Don Camillo, tu cammini soprappensiero ed ecco che, nell'attraversare la ferrovia,
finisci con un piede impigliato non si sa come in una rotaia e, per quanti sforzi tu faccia, non riesci a toglierti di là e nessuno ti può aiutare. La linea ferroviaria è doppia e ha due binari affiancati e tu non sai su quale dei due binari passerà il treno. E tu domandi aiuto al tuo Dio. E, poco dopo, ecco un fischio: il treno passa sull'altro binario. Tu sei salvo e ringrazi Dio di aver predisposto le cose in modo tale che tu non finissi impigliato nell'altro binario. Non puoi ringraziare Iddio di aver fatto passare il treno dove tu volevi che passasse. Il treno era già in viaggio, quando tu sei finito col piede nella rotaia. E il treno camminava sull'altro binario. Tu non puoi pensare che Dio, per favorirti, lo abbia tolto da un binario per metterlo in quello vicino. Lo devi perciò ringraziare soltanto perché il treno camminava nell'altra rotaia.»
Don Camillo si inchinò e si segnò:
«Se vincerò al totocalcio Vi ringrazierò non di avermi fatto vincere, ma perché ho vinto» disse.
«E quindi non mi rimprovererai nel caso che tu non vincessi» concluse il Cristo sorridendo.”

Giovannino Guareschi (1908–1968) scrittore italiano

Tutto Don Camillo: Mondo Piccolo

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“Decisi che avrei scoperto chi aveva ucciso Wellington, anche se mio padre mi aveva ordinato di non ficcare il naso negli affari degli altri.
Perché non faccio sempre quello che mi dicono di fare.

Perché quando qualcuno mi dà degli ordini, di solito sono cose che mi confondono e che non hanno nessun senso.

Per esempio quando dicono “Sta’ zitto”, ma non specificano per quanto tempo devi stare zitto. Oppure se su un cartello vedi NON CALPESTARE IL PRATO, in realtà dovrebbe esserci scritto NON CALPESTARE IL PRATO INTORNO A QUESTO CARTELLO oppure NON CALPESTARE IL PRATO DI QUESTO PARCO, perché invece ci sono molti prati su cui si può camminare.

La gente non rispetta mai le regole. Mio padre per esempio va a più di 90 chilometri all’ora nelle strade dove non si devono superare i 90 chilometri all’ora, e qualche volta guida dopo aver bevuto e spesso non si mette la cintura di sicurezza quando prende il furgone. E nella Bibbia si legge Non uccidere, ma ci sono state le Crociate e due Guerre Mondiali e la Guerra del Golfo e in ognuna di queste guerre dei Cristiani hanno ucciso dei loro simili.

E poi non lo capisco, quando dice “Non ficcare il naso negli affari degli altri”, perché non so cosa sono gli “affari degli altri”; io faccio un mucchio di cose con “gli altri”, a scuola, nel negozio e sul pulmino, e il suo lavoro consiste nell’andare a casa di altre persone e riparare i loro scaldabagni e l’impianto di riscaldamento. Anche questo vuol dire farsi gli affari degli altri.

Siobhan mi capisce. Quando mi ordina di non fare una cosa mi dice esattamente cos’è che non devo fare. Così mi piace.

Per esempio una volta mi ha detto: - Non devi mai prendere a pugni Sarah o picchiarla in nessun modo, Christopher. Anche se è lei a colpirti per prima. Se succede di nuovo, allontanati, rimani immobile e conta da 1 a 50, poi vieni da me a raccontarmi cosa ha fatto o parlane con qualche altro insegnante.

Un’altra volta mi ha detto: - Se vuoi andare sull’altalena e c’è sempre qualcuno sopra, non spingerlo via. Chiedi se puoi fare un giro anche tu. E poi aspetta fino a quando non ha finito.

Gli altri però quando ti danno un ordine non si comportano in questo modo. E allora sono io a decidere cosa fare e cosa non fare.”

The Curious Incident of the Dog in the Night-Time

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“orrore all’idea di aggiungere i miei lamenti ai piagnistei dell’umanità, per lungo tempo non avrei saputo dire cosa mi avesse resa capace di sopportare tutto ciò. Se la Storia è l’inferno, la vita è il paradiso. La felicità non ci è data: è una cosa che si fa, si inventa. L’ho imparato da poco, leggendo dietro consiglio della signora Mandonato i filosofi della gioia, che hanno scritto nero su bianco tutto quanto ho sempre pensato, senza averlo mai saputo esprimere. Epicuro, capace di parlare così bene del piacere della contemplazione e morto per un blocco renale dopo aver sopportato i dolori di terribili calcoli. Spinoza, cantore della felicità, proscritto e maledetto dalla comunità a cui apparteneva. Infine Nietzsche, che ha celebrato la vita e sosteneva di provare un’indicibile allegria mentre soffriva martiri in tutto il corpo, divorato com’era da un mostruoso herpes genitale e da una sifilide all’ultimo stadio, oltre che da una cecità crescente e un’ipersensibilità uditiva. Per non parlare degli attacchi di vomito ed emicrania. «Nietzsche chiamava il dolore la sua cagna» ha precisato Jacky, che è una persona colta. «Lo considerava fedele come un cagnolone su cui sfogare il suo cattivo umore.» Dopo cena, ormai sbronza, mi sono alzata e ho sproloquiato un po’: «Un discorso è come un vestito da donna. Dev’essere abbastanza lungo da coprire e abbastanza corto da suscitare interesse. Il mio si comporrà di un’unica frase: ognuno ha solo la vita che si merita».”

La cuoca di Himmler

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“In tribunale il valore del diario di Isabella rimase dubbio. Come ogni altro libro dello stesso genere, oltre che di ricordi era fatto anche di aspettative: era provvisorio e instabile, si situava al confine tra pensiero e azione, desiderio e realtà. Ma, come cruda testimonianza emotiva, era un’opera che lasciava attoniti, che poteva destare entusiasmo o allarme. Il diario diede ai suoi lettori vittoriani un’immagine del futuro, come offre a noi un’immagine del nostro mondo plasmato sul passato. Sicuramente non ci dice ciò che accadde nella vita di Isabella, ma ci dice ciò che lei desiderava.
Il diario dipingeva un ritratto delle libertà a cui le donne avrebbero potuto aspirare, se avessero rinunciato a credere in Dio e nel matrimonio: il diritto ad avere delle proprietà e del denaro, a ottenere la custodia dei figli, a sperimentare dal punto di vista sessuale ed intellettuale. Accennava anche al dolore e alla confusione che queste libertà avrebbero generato. Nel decennio in cui la Chiesa rinunciò al proprio controllo sul matrimonio e Darwin gettò nel dubbio più profondo le origini spirituali dell’umanità, quel diario era un segno dei tumulti che si sarebbero verificati.
In una pagina senza data Isabella si rivolgeva esplicitamente a un futuro lettore. «Una settimana del nuovo anno se n’è già andata, - esordiva. – Ah! Se avessi la speranza dell’altra vita di cui parla mia madre (oggi lei e mio fratello mi hanno scritto delle lettere affettuose), e che il signor B. ci ha sollecitato a conquistarci, sarei allegra e felice. Ma, ahimé!, non ce l’ho, e non potrò mai ottenerla; e per quanto riguarda questa vita, la mia anima è invasa e lacerata dalla rabbia, dalla sensualità, dall’impotenza e dalla disperazione, che mi riempiono di rimorso e di cattivi presentimenti».
«Lettore, -scrisse – tu vedi la mia anima più nascosta. Devi disprezzarmi e odiarmi. Ti soffermi anche a provare pietà? No; perché quando leggerai queste pagine, la vita di colei che “era troppo flessibile per la virtù; troppo virtuosa per diventare una cattiva fiera e trionfante” sarà finita». Era una citazione imprecisa dall’opera teatrale The Fatal Falsehood (1779) di Hannah More, in cui un giovane conte italiano – un «miscuglio di aspetti strani e contraddittori» – si innamora perdutamente di una donna promessa al suo migliore amico.
Quando Edward Lane lesse il diario, fu questo passaggio in particolare a suscitare la sua rabbia e il suo disprezzo: «Si rivolge al Lettore! – scrisse a Combe – Ma chi è il Lettore? Allora quel prezioso diario è stato scritto per essere pubblicato, o, almeno, era destinato a un erede della sua famiglia? In entrambi i casi, io affermo che è completa follia – e se anche non ci fossero ulteriori pagine, in questo guazzabuglio farraginoso, a confermare la mia ipotesi, a mio parere questa sarebbe già sufficiente».
Eppure il richiamo di Isabella a un lettore immaginario può, al contrario, fornire la spiegazione più limpida del perché avesse tenuto il diario. Almeno una parte di lei voleva essere ascoltata. Coltivava la speranza che qualcuno, leggendo quelle parole dopo la sua morte, avrebbe esitato prima di condannarla; che un giorno la sua storia potesse essere accolta con compassione e perfino amore. In assenza di un aldilà spirituale, noi eravamo l’unico futuro che aveva.
«Buona notte, - concludeva, con una triste benedizione: - Possa tu essere più felice!».”

Mrs. Robinson's Disgrace: The Private Diary of a Victorian Lady

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“È che pensava a lei, la criticava, e di nuovo, dopo trent'anni, provava a spiegarsela.”

Virginia Woolf (1882–1941) scrittrice, saggista e attivista britannica

Mrs. Dalloway

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“Vorrei solo poter restare qui tutta la notte e continuare a scrivere. Scrivere mi fa bene. Lo sento. Anche quando scrivo cose tristi, qualcosa in me si tranquillizza, sento di avere uno scopo.

Voglio rimanere qui e raccontare le cose più semplici. Descrivere la foglia che è appena caduta. O la catasta di sedie in veranda. O le falene attratte dalla lampada. E raccontare ciò che avviene durante la notte finché il buio si tramuta in luce, fino ai cambiamenti di colore. Potrei rimanere qui seduta per giorni e notti a descrivere ogni stelo d'erba, ogni fiore, i sassi del muretto, le pigne. Solo dopo, quando mi sentirò pronta, passerò a scrivere di me. Del mio corpo, per esempio. Comincerò da lui, da ciò che è tangibile. Ma anche con lui partirò da lontano, dalle dita dei piedi, per avvicinarmi piano piano. Descriverò ogni sua parte, ne annoterò le sensazioni, quelle di un tempo e quelle attuali. I ricordi della caviglia, per esempio, o della guancia, o del collo. Perché no? Attraverso le carezze, i baci e le cicatrici. Mantenermi viva con la scrittura. Ci vorrà un sacco di tempo ma ne ho molto a mia disposizione. La vita è lunga e voglio raccontare di me stessa, raccontare quello che probabilmente nessuno mi racconterà mai. La mia storia. Senza aggiunte, ma anche senza detrazioni. Scrivere senza pretendere nulla. Da nessuno. Scrivere solo la mia voce.”

David Grossman (1954) scrittore e saggista israeliano

Be My Knife

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