Frasi su dopo
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“Caro Bettino, come ti ho accennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torino, Guffanti e Cabassi, la Polizia tributaria si interesserà a me… Ti ringrazio per quello che crederai sia giusto fare.”

Silvio Berlusconi (1936) politico e imprenditore italiano

1980
Origine: Da una lettera inviata a Bettino Craxi, allora leader del PSI; citato in Marco Travaglio, Berlusconi, storia dell'evasore-corruttore da Craxi a Mills http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/08/berlusconi-storia-dellevasore-corruttore-da-craxi-a-mills, IlFattoQuotidiano.it, 8 agosto 2013.

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“E il babbo diceva è perché sei vergine: non vedi? Le donne non sono mai vergini. La purezza è uno stato negativo e perciò contronatura. È la natura che ti fa soffrire non Caddy e io dicevo Queste sono soltanto parole e lui diceva Anche la verginità è una parola e io dicevo tu non sai. Non puoi sapere e lui diceva Sì. Nell'attimo, in cui si arriva a rendersene conto si scopre che non è più una tragedia.
Dove cadeva l'ombra del ponte potevo spingere lo sguardo molto in basso, ma non fino al fondo. Quando lasci una foglia nell'acqua per molto tempo dopo un po' il tessuto se ne va e restano le fibre delicate a ondeggiare con la stessa lentezza dei movimenti che si fanno nel sonno. Non si toccano, anche se prima formavano un groviglio… E forse quando Lui dirà Sorgete anche gli occhi verranno a galla, dal silenzio e dal sonno dell'abisso, per contemplare la sua gloria.
Non vedevo il fondo ma potevo spingere lo sguardo molto in basso nel moto dell'acqua, prima che l'occhio si desse per vinto, e allora vidi un'ombra sospesa come una grossa freccia che andava contro corrente. Le effimere entravano e uscivano dall'ombra del ponte sfiorando la superficie. Se di là ci fosse almeno un inferno: la pura fiamma noi due più che morti. Allora tu avrai soltanto me allora solo me allora noi due tra l'esecrazione e l'orrore oltre la pura fiamma… Il vorticce che svaniva fu portato via fu portato via dalla corrente e allora rividi la freccia, ferma a un palmo dalla superficie, tremare appena al moto dell'acqua sopra la quale le effimere volteggiando si posavano.
Tu e io soltanto allora tra l'esecrazione e l'orrore in un cerchio di pura fiamma”

The Sound and the Fury

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“Dov’è che due treni che s’incrociano non ripartono entrambi dopo essere arrivati?”

Sei passeggiate nei boschi narrativi: Harvard University, Norton Lectures, 1992-1993

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“So che stai leggendo tardi questa
poesia, prima di lasciare l' ufficio
con l'abbagliante lampada gialla e la finestra nel buio
nell'apatia di un fabbricato sbiadito nella quiete
dopo l'ora di traffico. So che stai leggendo questa poesia
in piedi nella libreria lontano dall'oceano
in un giorno grigio di primavera, fiocchi sparsi di neve
spinti attraverso enormi spazi di pianure intorno a te.
So che stai leggendo questa poesia
in una stanza dove tanto è accaduto che non puoi sopportare
dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti
e la valigia aperta parla di fughe
ma non puoi ancora partire. So che stai leggendo questa poesia
mentre il treno della metropolitana perde velocità e prima di salire
le scale
verso un nuovo tipo d'amore
che la vita non ti ha mai concesso.
So che stai leggendo questa poesia alla luce
del televisore dove immagini mute saltano e scivolano
mentre tu attendi le telenotizie sull'intifada.
So che stai leggendo questa poesia in una sala d'attesa
Di occhi che s'incontrano sì e no, d'identità con estranei.
So che stai leggendo questa poesia sotto la luce al neon
nel tedio e nella stanchezza dei giovani fuori gioco,
che si mettono fuori gioco quando sono ancora troppo giovani. So
che stai leggendo questa poesia con una vista non più buona, le spesse lenti
ingigantiscono queste lettere oltre ogni significato però
continui a leggere perché anche l'alfabeto è prezioso.
So che stai leggendo questa poesia mentre vai e vieni accanto alla stufa
scaldando il latte, sulla spalla un bambino che piange, un libro
nella mano
poiché la vita è breve e anche tu hai sete.
So che stai leggendo questa poesia non scritta nella tua lingua
indovinando alcune parole mentre altre continui a leggerle
e voglio sapere quali siano queste parole.
So che stai leggendo questa poesia mentre ascolti qualcosa,
diviso fra rabbia e speranza
ricominciando a fare di nuovo il lavoro che non puoi rifiutare.
So che stai leggendo questa poesia perché non rimane
nient'altro da leggere
là dove sei atterrato, completamente nudo.”

Adrienne Rich (1929–2012) poetessa e saggista statunitense

An Atlas of the Difficult World

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“Non ci accorgiamo subito, ma solo dopo, di quanto è importante la scelta né distratta, né casuale, di scrivere, di far durare le nostre visioni prima per noi, poi per qualcuno vicino e infine per tanti lontani e invisibili. Ma non è così semplice. A volte tutto questo diventa privilegio, abitudine, sopravvivenza. Scrivere non è necessariamente pubblicare, ripeto sempre. Ma ho scritto un solo libro e già soffro perché non riesco a pubblicarne un altro. E spesso mi irrito con quelli che vogliono entrare nel mio mondo, schernisco i miei compagni di desiderio, sono impaurito da questa orda di carta, da questa immigrazione di extracomunicanti. Perché volete entrare in questo mondo di premi farseschi, di parassiti accademici, di cretini televisivi elevati a saggisti e di saggisti che aspirano a diventare cretini televisivi? Perché, se ogni scrittore ben sa che un giorno, o tutta la vita, si sentirà sottovalutato e incompreso? Se un giorno deciderà di bruciare i suoi libri, e il giorno dopo vorrà segnare con una croce di sangue ogni volume non suo, acciocché l’Angelo Maceratore scenda e cancelli i suoi rivali dalla storia e dalle classifiche?
– E lei perché vuol vivere in questo difficile mondo? – disse il professor Virgilio.
– Giusto. Non perché non so fare altro. Ma perché non conosco niente di così confuso, inestricabile, e tuttavia sempre avventuroso.”

Achille piè veloce

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“Nel sole di marzo, mentre era seduto su una catasta di ceppi di faggio che scricchiolavano per il caldo, avvenne che egli pronunciasse per la prima volta la parola «legno». Aveva già visto il legno centinaia di volte, aveva sentito la parola centinaia di volte. La capiva anche, infatti d'inverno era stato mandato fuori spesso a prendere legna. Ma il legno come oggetto non gli era mai sembrato così interessante da darsi la pena di pronunciarne il nome. Ciò avvenne soltanto quel giorno di marzo, mentre era seduto sulla catasta. La catasta era ammucchiata a strati, come una panca, sul lato sud del capannone di Madame Gaillard, sotto un tetto sporgente. I ceppi più alti emanavano un odore dolce di bruciaticcio, dal fondo della catasta saliva un profumo di muschio, e dalla parete d'abete del capannone si diffondeva nel tepore un profumo di resina sbriciolata.
Grenouille era seduto sulla catasta con le gambe allungate, la schiena appoggiata contro la parete del capannone, aveva chiuso gli occhi e non si muoveva. Non vedeva nulla, non sentiva e non provava nulla. Si limitava soltanto ad annusare il profumo del legno che saliva attorno a lui e stagnava sotto il tetto come sotto una cappa. Bevve questo profumo, vi annegò dentro, se ne impregnò fino all'ultimo e al più interno dei pori, divenne legno lui stesso, giacque sulla catasta come un pupazzo di legno, come un Pinocchio, come morto, finché dopo lungo tempo, forse non prima di una mezz’ora, pronunciò a fatica la parola «legno». Come se si fosse riempito di legno fin sopra le orecchie, come se il legno gli arrivasse già fino al collo, come se avesse il ventre, la gola, il naso traboccanti di legno, così vomitò fuori la parola. E questa lo riportò in sé, lo salvò, poco prima che la presenza schiacciante del legno, con il suo profumo, potesse soffocarlo. Si alzò a fatica, scivolò giù dalla catasta, e si allontanò vacillando come su gambe di legno. Per giorni e giorni fu preso totalmente dall'intensa esperienza olfattiva, e quando il ricordo saliva in lui con troppa prepotenza, borbottava fra sé e sé «legno, legno», a mo' di scongiuro.”

Perfume: The Story of a Murderer

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“Per Wallander la vita era un succedersi di problemi pratici che dovevano essere risolti, allo stesso tempo sapeva di non aveva la capacità di migliorare la propria esistenza o quella di altri con formule filosofiche. E non si era mai lamentato di vivere nell'epoca che il caso o il destino gli avevano assegnato. Si nasce quando si nasce e si muore quando viene la nostra ora, e questi per Wallander erano i limiti dell'esistenza. Ma in quella notte passata insieme a Baiba Liepa in quella gelida chiesa fu costretto a guardare dentro se stesso come non aveva mai fatto prima. Durante quella notte interminabile si rese conto che la ricca Svezia non era il mondo e che quelle che fino ad allora aveva considerato delle difficoltà apparivano insignificanti se paragonate al terrore con cui Baiba Liepa doveva vivere giorno dopo giorno. Quella notte il ricordo del massacro di cui era stato testimone lo colpì con tutta la sua violenza. Quello a cui aveva assistito none era stato un incubo, le armi erano armi vere e le pallottole che avevano brutalmente interrotto delle vite umane erano pallottole vere. Si chiese se il supplizio peggiore al quale un essere umano potesse essere condannato fosse una paura senza fine. Improvvisamente, il nostro è diventato il tempo della paura, pensò. Questa è l'epoca in cui io vivo ed è solo adesso che me ne rendo conto.”

The Dogs of Riga

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“Dal Ka-Be la musica non si sente bene: arriva assiduo e monotono il martellare della grancassa e dei piatti, ma su questa trama le frasi musicali si disegnano solo a intervalli, col capriccio del vento. Noi ci guardiamo l'un l'altro nei nostri letti, perchè tutti sentiamo che questa è musica infernale.
I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l'ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l'espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomoni per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c'è più volontà, ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione rilflessa dei muscoli sfatti. […] Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestiemme e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato centro volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell'anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare all'uomo.”

Primo Levi (1918–1987) scrittore, partigiano e chimico italiano
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“Be’… – disse lei, rigirandosi compiaciuta sulla schiena. – Mi piace mangiare roba buona, bistecche e patate rosolate, cose cosí. Mi piace leggere libri e riviste, viaggiare in treno di notte e quelle volte che ho viaggiato in aereo –. Fece una pausa. – Naturalmente non sto elencando le cose in ordine di preferenza. Dovrei pensarci meglio per elencarle in ordine di preferenza. Però mi piace, viaggiare in aereo. C’è un momento quando ci si stacca da terra in cui hai la sensazione che qualsiasi cosa succeda, andrà bene –. Gli passò una gamba sopra la caviglia. – Mi piace stare alzata fino a notte alta e poi restare a letto fino a tardi il giorno dopo. Vorrei tanto potessimo farlo sempre, invece che una volta ogni tanto. E poi mi piace il sesso. Mi piace essere toccata di tanto in tanto quando non me l’aspetto. Mi piace andare al cinema e farmi una birra con le amiche dopo. Mi piace avere amiche. Janice Hendricks mi piace un sacco. Mi piacerebbe andare a ballare almeno una volta a settimana. E avere sempre dei bei vestiti. Mi piacerebbe poter comprare bei vestiti anche per i bambini ogni volta che gli servono, senza dover aspettare. Per esempio Laurie ha bisogno di un vestito nuovo adesso per Pasqua. E mi piacerebbe comprare a Gary un completino o qualcosa del genere. Ormai è grandicello. Vorrei che anche tu avessi un completo nuovo. Anzi, tu ne hai veramente piú bisogno di Gary. E mi piacerebbe che avessimo una casa tutta nostra. Vorrei piantarla di traslocare ogni anno, due anni al massimo. Ma soprattutto vorrei tanto che io e te potessimo vivere una buona vita onesta, senza doverci sempre preoccupare dei conti, dei soldi e roba del genere. Ma tu dormi, – disse. – No che non dormo, – disse lui. – Non riesco a pensare ad altre cose. Ora tocca a te. Dimmi che cosa piacerebbe a te. – Non so. Un sacco di cose, – bofonchiò lui. – Be’, dimmele. Si fa tanto per parlare, no? – Vorrei tanto che mi lasciassi in pace, Nan –. Si rigirò dalla sua parte e lasciò penzolare il braccio oltre il bordo.”

Raymond Carver (1938–1988) scrittore, poeta e saggista statunitense

Da dove sto chiamando

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“Con la fantasia, Bridget tornò mille volte a quel primo bacio appassionato, rendendolo sempre più perfetto.
Ma non andò oltre.
Per molte ore, dopo avere lasciato Eric, rimase sveglia nel sacco a pelo.
Tremava.
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Ecco che cominciavano a scendere.
Lacrime di tristezza, di disagio, d’amore.
Erano il genere di lacrime che le venivano quando si sentiva troppo colma: aveva bisogno di fare un po’ di spazio.
Guardò il cielo.
Era più grande, quella notte.
Quella notte i suoi pensieri si avventuravano negli spazi infiniti e, come diceva Diana, non trovavano alcun ostacolo su cui rimbalzare per tornare indietro.
Andavano avanti e avanti, finché nulla sembrava più reale.
Neppure il pensiero. Bridget si era stretta a Eric, piena di desiderio, insicura, spavalda e impaurita.
C’era una tempesta nel suo corpo, e quando era diventata troppo violenta, lei era andata via. Si era lasciata levitare fino alle fronde delle palme.
Lo aveva già fatto altre volte.
Avrebbe lasciato affondare la nave senza il capitano.
Quello che era successo con Eric era insondabile, indescrivibile.
Ora tutto questo era lì con lei, incerto, desideroso di qualcuno che se ne prendesse cura: ma Bridget non sapeva come.
Richiamò indietro i propri pensieri, raccogliendoli ad anello come il filo di un aquilone.
Si arrotolò il sacco a pelo sotto il braccio e tornò furtiva alla baracca. Si distese sul letto.
Quella notte non avrebbe concesso ai suoi pensieri di avventurarsi oltre le travi sbiadite del soffitto”

Ann Brashares (1967) scrittrice statunitense

The Sisterhood of the Traveling Pants

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“Considerare il diavolo un partigiano del Male e l'angelo un combattente del Bene significa accettare la demagogia degli angeli. La faccenda, in realtà, è più complessa.
Gli angeli sono partigiani non del Bene, ma della creazione divina. Il diavolo, invece, è colui che nega al mondo divino un senso razionale.
Come si sa, angeli e demoni si spartiscono il dominio del mondo. Tuttavia, per il bene del mondo non occorre che gli angeli abbiano il sopravvento sui demoni (come credevo quando ero bambino), ma che i poteri degli uni e degli altri siano all'incirca in equilibrio. Se nel mondo c'è un eccesso di senso incontestabile (dominio degli angeli), l'uomo soccombe sotto il suo peso. Se il mondo perde tutto il suo senso (dominio dei demoni), è altrettanto impossibile vivere.
Le cose che vengono private di colpo del loro senso presunto, del posto assegnato loro nel preteso ordine delle cose (un marxista formatosi a Mosca che crede agli oroscopi), provocano in noi il riso. All'origine, il riso appartiene dunque al diavolo. Vi è in esso qualcosa di malvagio (le cose si rivelano di colpo diverse da come volevano farci credere di essere), ma anche una parte di benefico sollievo (le cose sono più leggere di come apparivano, ci lasciano vivere più liberamente, smettono di opprimerci con la loro austera serietà).
Quando l'angelo udì per la prima volta il riso del maligno, restò sbalordito. Accadde durante un banchetto, la sala era gremita e i presenti durino conquistati uno dopo l'altro dal riso del diavolo, che era contagioso. L'angelo capiva benissimo che quel riso era diretto contro Dio e contro la dignità della sua opera. Sapeva di dover reagire subito, in un modo o nell'altro, ma si sentiva debole e inerme. Non riuscendo a inventare niente di nuovo, scimmiottò il suo rivale. Aperta la bocca, emise un suono intermittente, spezzato, alle frequenze più alte del suo registro vocale […], ma dandogli un significato opposto: Mentre il riso del diavolo alludeva all'assurdità delle cose, l'angelo, col suo grido, voleva rallegrarsi che tutto, quaggiù, fosse ordinato con ragione, ben concepito, bello, buono e pieno di senso.
Così l'angelo e il diavolo si fronteggiavano e, mostrandosi l'un l'altro la bocca spalancata, emettevano all'incirca lo stesso suono, ma ciascuno esprimeva col suo clamore cose radicalmente opposte. E il diavolo guardava l'angelo ridere e rideva ancora di più, ancora meglio e con più gusto, perché l'angelo che rideva era infinitamente comico.
Un riso ridicolo è un fallimento. Ciò non toglie che gli angeli abbiano ottenuto comunque un risultato. Ci hanno ingannati tutti con un'impostura semantica. Per indicare sia la loro imitazione del riso, sia il riso originale (quello del diavolo), c'è una parola sola. Ormai non ci rendiamo nemmeno più conto che la stessa manifestazione esteriore nascoste due atteggiamenti interiori assolutamente opposti. Esistono due tipi di riso e noi non abbiamo parole per distinguerli l'un l'altro.”

The Book of Laughter and Forgetting

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“Se ora penso agli anni di allora, mi colpisce quanto poco ci fosse in realtà da vedere, quante poche immagini illustrassero la vita e la morte nei Lager. Conoscevamo di Auschwitz il portale con la sua scritta, i pancacci di legno a più piani, i mucchi di capelli, occhiali e valigie; di Birkenau l'entrata con la torre, i corpi laterali e il passaggio per i treni; e da Bergen-Belsen ci venivano le montagne di cadaveri trovate e fotografate dagli alleati al momento della liberazione. Conoscevamo alcune testimonianze di detenuti, ma molti libri apparvero subito dopo la guerra e vennero ristampati solo negli anni Ottanta, visto che nel frattempo non rientrarono nei programmi delle case editrici. Ora ci sono così tanti libri e film che il mondo dei Lager è ormai parte dell'immaginario collettivo che completa il mondo reale. La fantasia lo conosce ormai bene, e a partire dalla serie televisiva Olocausto e da film come La scelta di Sophie e soprattutto Schindler's list si muove anche in quel mondo. E non ne prende solo atto, ma integra e abbellisce. Allora la fantasia stentava a muoversi; riteneva che allo sgomento di cui era debitrice al mondo dei Lager non si confacessero le movenze della fantasia. Quelle poche immagini che doveva alle foto degli alleati e alle testimonianze dei detenuti, le ha poi guardate riguardate, fino a farne dei cliché.”

The Reader

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“Pochi uccelli Stephen preferiva ai succiacapre, ma non era stato il loro canto a farlo scendere dal letto. Rimase fermo, appoggiato alla ringhiera, e poco dopo Jack Aubrey, in un padiglione presso il campo di bocce, ricominciò a suonare con grande dolcezza nel buio, improvvisando solo per sé, fantasticando sul suo violino con una maestria che Stephen non aveva mai conosciuto in lui, sebbene avessero suonato insieme per tanti anni. […] In effetti suonava meglio di Stephen, e ora che stava usando il suo prezioso Guarnieri invece del robusto strumento adatto al mare, la differenza era ancora più marcata: ma il Guarnieri non bastava a spiegarla del tutto, assolutamente no. Quando suonavano insieme, Jack nascondeva la propria eccellenza, mantenendosi al mediocre livello di Stephen […]; mentre rifletteva su questo, Maturin si rese conto a un tratto che era sempre stato così: Jack, indipendentemente dalle condizioni di Stephen, detestava mettersi in mostra. Ma in quel momento, in quella notte tiepida, ora che non vi era nessuno da sostenere moralmente, cui dare il proprio appoggio, nessuno che potesse criticare il suo virtuosismo, Jack poteva lasciarsi andare completamente; e mentre la musica grave e delicata continuava a diffondersi, Stephen si stupì una volta di più dell'apparente contraddizione tra il grande e grosso ufficiale di marina, florido e allegro […] e la musica pensosa, complessa che quello stesso uomo stava ora creando. Una musica che contrastava immensamente con il suo limitato vocabolario, un vocabolario che lo rendeva talvolta quasi incapace di esprimersi.”

The Commodore

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“Un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava. Invece di trovare un sant'uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un'attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c'era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto. Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore. 'Nel frattempo, voglio chiederti un favore,' concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d'olio. 'Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l'olio.' Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio. 'Allora,' gli domandò questi, 'hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?' Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d'olio che il Saggio gli aveva affidato. 'Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo,' disse il Saggio. 'Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.' Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d'arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d'arte era disposta al proprio posto. Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto. 'Ma dove sono le due gocce d'olio che ti ho affidato?' domandò il Saggio. Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate. 'Ebbene, questo è l'unico consiglio che ho da darti,' concluse il più Saggio dei saggi. 'Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza mai dimenticare le due gocce d'olio nel cucchiaino.' Il ragazzo tacque. Aveva capito la storia del vecchio re: un pastore ama viaggiare, ma non dimentica mai le sue pecore.”

The Alchemist

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“«Tutti abbiamo il nostro momento d'oro. E dopo, è bello ricordarlo. Se fosse sempre il nostro momento d'oro non ce ne accorgeremmo neanche».
«Quand'è stato il tuo momento d'oro» mi chiede Mara.
Ci penso un po' su e poi rispondo: «Una volta ho vinto un pesce rosso al Luna Park».
Segue un rispettoso silenzio.”

Stefano Benni (1947) scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano

Baol. Una tranquilla notte di regime
Variante: «Tutti abbiamo il nostro momento d'oro. E dopo, è bello ricordarlo. Se fosse sempre il nostro momento d'oro non ce ne accorgeremmo neanche».
«Quand'è stato il tuo momento d'oro?» mi chiede Mara.
Ci penso un po' su e poi rispondo: «Una volta ho vinto un pesce rosso al Luna Park».
Segue un rispettoso silenzio.

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“Lo so, lo so, ma ascoltami. Hai letto L’idiota, vero? Sì. Beh, L’idiota è un libro molto inquietante per me. Mi ha fatto così effetto che dopo non ho quasi più letto romanzi, a parte roba tipo ‘Uomini che odiano le donne’. Perché… provavo a intromettermi, …be’, magari me lo dici dopo, a cosa pensavi, lasciami finire di dirti perché l’ho trovato inquietante. Perché tutto quello che Myškin fa è buono… altruista… tratta tutti con compassione e comprensione e a cosa porta tutta quella bontà? Omicidi! Disastri! Una volta mi preoccupavo un sacco di questa cosa. Me ne stavo sveglio a letto di notte e mi preoccupavo! Perché – perché? Com'era possibile? Ho letto quel libro tre volte, pensando di non averlo capito. Myškin era gentile, amava la gente, era tenero, perdonava sempre, non faceva mai niente di sbagliato – ma si fidava di tutte le persone sbagliate, prendeva solo decisioni sbagliate, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano intorno. Quel libro contiene un messaggio oscuro. “A che pro essere buoni?” Ma – questo è ciò che ho capito ieri notte, mentre guidavo. E se… se fosse più complicato di così? Se fosse vero anche il contrario? Perché se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte – il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?”

The Goldfinch

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“Questa è la fattoria Hale.
Ecco la vecchia stalla per la mungitura, l’entrata buia che dice Vieni a cercarmi.
Ecco la banderuola, la catasta di legna.
Ecco la casa, echeggiante di storie.
È presto. Il falco vola lento nel cielo sgombro. Una sottile piuma blu volteggia nel vuoto. L’aria è fredda, limpida. La casa è silenziosa, come la cucina, il divano di velluto blu, la piccola tazza da tè bianca.
Da sempre la fattoria canta per noi, le sue famiglie perdute, i suoi soldati e le mogli. Durante la guerra, quando arrivarono con le baionette, entrando con la forza, gli stivali infangati sulle scale. Patrioti. Banditi. Mariti. Padri. Dormivano nei letti freddi. Razziavano la cantina in cerca di barattoli di pesche sciroppate e barbabietole da zucchero. Accendevano grandi fuochi nel campo, e le fiamme si contorcevano, schioccando alte verso il cielo. Fuochi che ridevano. Le facce calde brillavano e le mani erano in tasca, al riparo. Arrostivano un maiale e strappavano la carne dolce e rosea dall’osso. Dopo, si succhiavano via il grasso dalle dita, un sapore familiare, strano.
Ce ne sono stati altri – molti – che hanno rubato, smantellato e saccheggiato. Perfino i tubi di rame, perfino le mattonelle di ceramica. Quello che potevano prendere, prendevano. Hanno lasciato solo i muri, i pavimenti spogli. Il cuore pulsante in cantina.
Noi aspettiamo. Siamo pazienti. Aspettiamo notizie. Aspettiamo che ci venga detto qualcosa. Il vento sta provando a farlo. Gli alberi ondeggiano. È la fine di qualcosa; lo sentiamo. Presto sapremo.”

All Things Cease to Appear

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“Per me l'atto di pensare e quello di esprimere i pensieri non sono simultanei, e neppure necessariamente consecutivi. So di pensare e parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri non appena si formano o immediatamente dopo; eppure la lingua in cui io penso e quella in cui parlo sembrano spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento, o anche retroattivamente.
Mi ha sempre affascinato l’idea della traduzione simultanea, come alle Nazioni Unite, dove nel pubblico tutti hanno gli auricolari e si sa che nelle retrovie gli interpreti ascoltano quello che viene detto e lo trasformano in un’altra lingua. Capisco che questo sia possibile, ma per me ha del miracoloso – che le parole siano lanciate in aria in una lingua e ricadano a terra in un’altra come una palla. Credo che nel mio cervello ci sia una specie di setaccio che impedisce un rapido (e tanto meno simultaneo) travaso dei pensieri in parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno; c’è qualcosa che mantiene i miei pensieri nel cervello, e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.
Riflettevo sui concetti di pensiero e di linguaggio, a quanto sarebbe stato difficile esprimerli – o quantomeno spossante, come se pensarli fosse già abbastanza e dirli fosse pleonastico o riduttivo, perché lo sanno tutti che la traduzione svilisce un testo, è sempre meglio leggere un libro nella lingua originale (À la recherche du temps perdu). Le traduzioni sono delle approssimazioni soggettive e questo è esattamente quello che provo quando parlo: quello che dico non è quello che penso ma solo quello che più gli si avvicina, con tutti i limiti e le imperfezioni del linguaggio. Quindi penso spesso che sia meglio stare zitto anziché esprimermi in modo inesatto.”

Peter Cameron (1959) scrittore statunitense
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“Voglio farle una domanda, disse il dottor Cardoso, lei conosce i médecins-philosophes? No, ammise Pereira, non li conosco, chi sono? I principali sono Théodule Ribot e Pierre Janet, disse il dottor Cardoso, è sui loro testi che ho studiato a Parigi, sono medici e psicologi, ma anche filosofi, sostengono una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perchè noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l'io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.
Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c'è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo. Il dottor Cardoso finì di mangiare la sua macedonia e si asciugò la bocca con il tovagliolo. E dunque cosa mi resterebbe da fare?, chiese Pereira. Nulla, rispose il dottor Cardoso, semplicemente aspettare, forse c'è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c'è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero.”

Sostiene Pereira

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“Dovessimo restare zitte e non parlare, il nostro abbigliamento e la condizione dei nostri corpi saprebbero tradire la vita che abbiamo condotta dopo il tuo esilio. Pensa un poco teco quanto più sfortunate di ogni donna vivente siamo noi qua venute, poiché la tua vista che dovrebbe far fluire di gioia i nostri occhi, far danzare i nostri cuori di consolazione, costringe quelli a piangere e questi a tremare di paura e di dolore, ponendo la madre, la sposa e il figlio a vedere il figlio, il marito e il padre che dilacera via le viscere della sua patria. E a noi poverine la tua inimicizia è quanto mai fatale: c’interdici le preghiere ai nostri Dei, ed è questo un conforto che tutti godono eccettuate noi; infatti, come possiamo noi, ahimè, come possiamo noi pregare per la nostra patria, a cui siamo vincolate. Insieme con la vittoria tua, a cui siamo ligie? Povere noi! O noi dobbiamo perdere la patria, nostra cara nutrice, o altrimenti perdere la tua persona, conforto nostro in patria. Subire noi dobbiamo una calamità evidente, anche se fosse soddisfatto il nostro augurio che da una parte abbia da vincere; perché o tu dovrai, come straniero rinnegato, essere condotto ammanettato per le nostre vie, oppure dovrai marciare trionfalmente sulle rovine della tua patria e meritar la palma per aver prodemente versato il sangue di tua moglie e dei tuoi figli. In quanto a me, o figlio, non intendo farmi ancella alla fortuna sinché non siano finite queste guerre: se non mi sia dato persuaderti di mostrare nobile amistà alle due parti anziché volere la morte di una, tu non marcerai ad assalire la tua patria senza prima calpestare – sta sicuro che non lo farai – il ventre di tua madre che ti ha messo a questo mondo. (Atto V, scena III)”

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