Frasi su volta
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“«Una volta» disse mia madre «non esisteva il buio totale. Persino di notte, la luna era luminosa quanto il sole. L’unica differenza stava nella luce, che era blu. Vedevi tutto per chilometri e chilometri e non faceva mai freddo. Si chiamava crepuscolo».
«Perché crepuscolo?».
«Perché è una parola in codice per cielo blu». Mi ero ricordata che si diceva codice blu quando moriva qualcuno, e anche questo aveva a che fare con il cielo.
Un giorno Dio aveva chiamato il pipistrello per dargli una cesta da portare sulla Luna. La cesta era piena di buio, ma Dio non aveva detto al pipistrello cos’era, solo “Portala sulla luna, poi quando torni ti spiego tutto”. Così il pipistrello parte in cerca della luna con la cesta in groppa. Mentre vola verso il cielo, la luna lo vede e si nasconde dietro una nuvola. Il pipistrello è stanco, e si ferma a riposare. Depone la cesta e va in cerca di qualcosa da mangiare. Mentre è a caccia, arrivano altri animali (più che altro lupi e cani, e anche un tasso con una zampa rotta). Pensando che nella cesta ci sia del cibo, gli animali alzano il coperchio, ma dentro c’è solo il buio, e loro non l’hanno mai visto. I cani e i lupi cercano di tirarlo fuori e di giocarci, ma gli guizza tra i denti e scivola via. In quel momento torna il pipistrello, apre la cesta e la trova vuota. Gli altri animali spariscono nella notte e il pipistrello si alza in volo per andare a riprendere il buio. Lo vede dappertutto, ma non riesce proprio a infilarlo di nuovo nella cesta. Per questo il pipistrello ancora oggi dorme tutto il giorno e vola di notte. Cerca sempre di riprendere il buio.”

Jenny Offill (1968)

Le cose che restano

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“Le parole sopravvivono ai sistemi perchè vivono di loro stesse: sono fuochi di memoria, segnali di trasmissione, transiti tra passato e presente, ancoraggi per evitare derive, non certo approdi definitivi, ma porti sicuri nel mare aperto della verità. Le parole, com'è noto, sono sapienti di per sè e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunziarle bisognerebbe ascoltarle: come all'inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo apprese.

Perchè non suonino vane è necessario che non se perda l'eco profonda, che nel dirle si sia ancora capaci di risentirle - quasi a trattenerle - per evitare che con il suono ne svanisca anche i senso. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l'ha preparata: in essa, poi, le parole sono maturate come frutti, si sono fissate in idee, si sono trasformate in concetti.

Variamente definite, hanno acquisito spessore e pur rimanendo le stesse nel corso del tempo sono divenute polisemiche, in taluni casi anche equivoche. Una stratificazione di significati tutta da indagare. Le parole della filosofia, come del resto tutte le parole, sono poi vincolate dalla logica del contesto, ma, ora, nell'attenuarsi dei vincoli di tradizione hanno acquistato una loro singolare libertà perchè nessuno più ha l'autorità di sottoporle a una previa restrizione.

Non si sono affatto sgravate del passato, ma sono più che mai feconde in forza di quel passato: eccedono se stesse per un sovraccarico di storia che mettono a disposizione senza ipoteche per la più ampia e e libera interpretazione. Per fare una buona filosofia basta, quindi, meditare sulle sue parole, seguirle nelle loro peripezie, procedere a una loro delucidatio, vincolarle di nuovo a più alti e differenziati livelli di definizione. Consapevoli, nel far questo, di prendere decisioni su di esse, di fare, appunto, teoria.

Le parole, poi, sono depositi di sapienza, sono tradizione e perciò garanzia di continuità pur nella variazione dei significati: certo, per investigare, scoprire, bisogna disfarsi del peso del passato, ma il già noto se non costringe sostiene, rassicura, è piattaforma per il futuro, è possibilità di mettersi al riparo se si perde la rotta e si fa naufragio.”

Parole della filosofia, o dell'arte di meditare

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“Pochi uccelli Stephen preferiva ai succiacapre, ma non era stato il loro canto a farlo scendere dal letto. Rimase fermo, appoggiato alla ringhiera, e poco dopo Jack Aubrey, in un padiglione presso il campo di bocce, ricominciò a suonare con grande dolcezza nel buio, improvvisando solo per sé, fantasticando sul suo violino con una maestria che Stephen non aveva mai conosciuto in lui, sebbene avessero suonato insieme per tanti anni. […] In effetti suonava meglio di Stephen, e ora che stava usando il suo prezioso Guarnieri invece del robusto strumento adatto al mare, la differenza era ancora più marcata: ma il Guarnieri non bastava a spiegarla del tutto, assolutamente no. Quando suonavano insieme, Jack nascondeva la propria eccellenza, mantenendosi al mediocre livello di Stephen […]; mentre rifletteva su questo, Maturin si rese conto a un tratto che era sempre stato così: Jack, indipendentemente dalle condizioni di Stephen, detestava mettersi in mostra. Ma in quel momento, in quella notte tiepida, ora che non vi era nessuno da sostenere moralmente, cui dare il proprio appoggio, nessuno che potesse criticare il suo virtuosismo, Jack poteva lasciarsi andare completamente; e mentre la musica grave e delicata continuava a diffondersi, Stephen si stupì una volta di più dell'apparente contraddizione tra il grande e grosso ufficiale di marina, florido e allegro […] e la musica pensosa, complessa che quello stesso uomo stava ora creando. Una musica che contrastava immensamente con il suo limitato vocabolario, un vocabolario che lo rendeva talvolta quasi incapace di esprimersi.”

The Commodore

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“Un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava. Invece di trovare un sant'uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un'attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c'era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto. Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore. 'Nel frattempo, voglio chiederti un favore,' concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d'olio. 'Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l'olio.' Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio. 'Allora,' gli domandò questi, 'hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?' Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d'olio che il Saggio gli aveva affidato. 'Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo,' disse il Saggio. 'Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.' Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d'arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d'arte era disposta al proprio posto. Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto. 'Ma dove sono le due gocce d'olio che ti ho affidato?' domandò il Saggio. Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate. 'Ebbene, questo è l'unico consiglio che ho da darti,' concluse il più Saggio dei saggi. 'Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza mai dimenticare le due gocce d'olio nel cucchiaino.' Il ragazzo tacque. Aveva capito la storia del vecchio re: un pastore ama viaggiare, ma non dimentica mai le sue pecore.”

The Alchemist

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“Personalmente, per quel tanto che conosco della storia dell'lnquisizione spagnola in Sicilia, nella mostra di Madrid mi imbatto in vecchie conoscenze e particolarmente in quella di Luis Rincon de Paramo (o Paramo del Rincon) che, per la verità, prima che nei fasti dell'lnquisizione di Sicilia, ho conosciuto nel Dizionario Filosofico di Voltaire, appunto alla voce Inquisizione. “Questo Paramo — dice Voltaire — era un uomo semplice, esattissimo nelle date, che non trascurava alcun fatto che avesse un qualche interesse, e calcolava col massimo scrupolo il numero delle vittime umane che il Sant’Uffizio aveva immolato in tutti i paesi”; e prima lo aveva proclamato “uno dei più rispettabili scrittori e dei più vivi splendori del Sant’Uffizio”. Il fatto è che il libro di Paramo lo divertiva, gli permetteva di affilarvi sopra la più micidiale ironia. Si direbbe, anzi, che, una volta imbattutosi nel libro di Paramo, Voltaire non abbia sentito il bisogno di cercare altro, sull’Inquisizione; e ragionevolmente. Paramo risponde così pienamente, così esattamente all’avversione laica nei confronti dell’istituzione, del fanatismo su cui si fonda, delle sue procedure e dei suoi uomini, che basta soltanto riassumerlo o citarlo testualmente per conseguire l’effetto di alimentare e ingigantire quell’avversione. Voltaire lo riassume: oggettivamente, impassibilmente. Che è sempre il modo migliore di fronteggiare il fanatismo, anche se ben sappiamo che non sempre il ridicolo uccide (avendo attraversato il fascismo negli anni suoi più comici, tra la conquista dell’Etiopia e la seconda guerra mondiale, abbiamo coi nostri occhi constatato che al ridicolo non solo si sopravvive ma se ne può trarre nutrimento e forza).”

Leonardo Sciascia (1921–1989) scrittore e saggista italiano

Ore di Spagna

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“«Tutti abbiamo il nostro momento d'oro. E dopo, è bello ricordarlo. Se fosse sempre il nostro momento d'oro non ce ne accorgeremmo neanche».
«Quand'è stato il tuo momento d'oro» mi chiede Mara.
Ci penso un po' su e poi rispondo: «Una volta ho vinto un pesce rosso al Luna Park».
Segue un rispettoso silenzio.”

Stefano Benni (1947) scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano

Baol. Una tranquilla notte di regime
Variante: «Tutti abbiamo il nostro momento d'oro. E dopo, è bello ricordarlo. Se fosse sempre il nostro momento d'oro non ce ne accorgeremmo neanche».
«Quand'è stato il tuo momento d'oro?» mi chiede Mara.
Ci penso un po' su e poi rispondo: «Una volta ho vinto un pesce rosso al Luna Park».
Segue un rispettoso silenzio.

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“Dunque," mormorò, "secondo lei le feste natalizie sono un'epoca poco favorevole ai delitti."
"E' quel che penso."
"Perché?"
"Perché?" Johnson parve un pò perplesso. "Perché, come ho detto, c'è un senso diffuso di allegria, di buona volontà… di buoni pranzi…"
"Come siete sentimentali, voi inglesi!"
"Bé, e anche se fosse così, che male ci vede? E' forse un male amare le tradizioni, le vecchie feste?"
"Oh no, nessun male, anzi è una cosa molto poetica! Ma esaminiamo i fatti. Lei ha detto che Natale è un'epoca di buoni pranzi. Questo significa che in questi giorni si mangia e si beve troppo… Per conseguenza… indigestioni, e all'indigestione si accompagna spesso una speciale irritabilità del carattere."
"Ma i delitti non vengono commessi per irritabilità."
"uhm! Non ne sono troppo sicuro… Ma partiamo anche da un altro punto di vista. A Natale impera lo spirito di "buona volontà". Vecchi litigi vengono dimenticati, coloro che si trovano in disaccordo fanno la pace… Sia pure provvisoriamente, le famiglie che sono state separate per tutto l'anno si raccolgono ancora una volta. In queste occasioni, amico mio, deve ammettere che i nervi possono venir sottoposti a dura prova. Persone che non hanno alcuna voglia di essere amabili fanno uno sforzo per apparirlo… C'è in essi molta ipocrisia, a Natale, onorevole ipocrisia, senza dubbio, ipocrisia pour le bon motif, ma sempre ipocrisia."
"Bé… io non presenterei le cose in questo modo," disse Johnson con aria dubbiosa.
Poirot gli sorrise.
"No, no, sono io che le presento così… e che sostengo come lo sforzo per essere buoni e amabili crei un malessere che può riuscire in definitiva pericoloso. Chiudete le valvole di sicurezza del vostro contegno naturale, e, presto o tardi, la caldaia scoppierà provocando un disastro."
Il colonnello Johnson guardò il piccolo belga.
"Non riesco mai a capire quando parla sul serio e quando si sta burlando di me."
"Non parlo sul serio, no!" disse Poirot ridendo. "Nemmeno per sogno. Ma sostengo che condizioni artificiali di vita finiscono sempre con una naturale reazione.”

Hercule Poirot's Christmas

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“«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.»

«Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»”

The Shadow of the Wind
Variante: «Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.
...
«Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»

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“Lo so, lo so, ma ascoltami. Hai letto L’idiota, vero? Sì. Beh, L’idiota è un libro molto inquietante per me. Mi ha fatto così effetto che dopo non ho quasi più letto romanzi, a parte roba tipo ‘Uomini che odiano le donne’. Perché… provavo a intromettermi, …be’, magari me lo dici dopo, a cosa pensavi, lasciami finire di dirti perché l’ho trovato inquietante. Perché tutto quello che Myškin fa è buono… altruista… tratta tutti con compassione e comprensione e a cosa porta tutta quella bontà? Omicidi! Disastri! Una volta mi preoccupavo un sacco di questa cosa. Me ne stavo sveglio a letto di notte e mi preoccupavo! Perché – perché? Com'era possibile? Ho letto quel libro tre volte, pensando di non averlo capito. Myškin era gentile, amava la gente, era tenero, perdonava sempre, non faceva mai niente di sbagliato – ma si fidava di tutte le persone sbagliate, prendeva solo decisioni sbagliate, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano intorno. Quel libro contiene un messaggio oscuro. “A che pro essere buoni?” Ma – questo è ciò che ho capito ieri notte, mentre guidavo. E se… se fosse più complicato di così? Se fosse vero anche il contrario? Perché se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte – il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?”

The Goldfinch

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“Dall'archivio magnetico del signor Alex D. Alla fine, l'equilibrio interiore non é da cercare. Forse ce l'abbiamo già, e più ci muoviamo o agitiamo o altro, e più ce ne alltonatniamo. Il fatto é che a parlare di equlibrio interiore mi sento un povero stronzo. Mi sembra uno di quei termini che si usano nelle sedute di psicoanalisi liberatoria collettiva o nei rifugi per donne violentate.
Okay. Tutto mi dice di essere forte, determinato negli scopi, capace di andare avanti nella Vita, ma se uno sente che é arrivato il momento di cambiare un pò rotta o anche solo il bisogno di fermarsi a ragionare sul serio per proprio conto? Voglio dire: e i cazzi di sette e mezzo in latino, per esempio, che da semplici strumenti sono diventati una specie di fine ultimo?… Insomma, a quanto ne so dovrei studiare per strappare un titolo di studio che a sua volta mi permetta di strappare un buon lavoro che a sua volta mi permetta di strappare abbastanza soldi per strappare una qualche cavolo di serenità tutta guerregiata e ferita e massacrata dagli sforzi inauditi per raggiungerla.
Cioè, uno dei fini ultimi é questa cavolo di serenità martoriata. Il ragionamento é così. Non ci vuole un genio. E allora, perché dovrei sacrificare i momenti di serenità che mi vengono incontro spontaneamente lungo la strada?
Perché dovrei buttarli in un pozzo, se fanno parte anche loro del fine a cui tendere? Se un pomeriggio posso andare a suonare o uscire con una ragazza che mi piace, perché cavolo devo starmene in casa a trascrivere le versioni dal traduttore o far finta di leggereil sunto di filosofia? La realtà é che mi trovo a sacrificare il me diciassettenne felice di oggi pomeriggio a un eventuale me stesso calvo e sovrappeso, cinquantenne soddisfatto, che apre la porta del garage col comando a distanza e dentro c'ha una bella macchina, una moglie che probabilmente gli fa le corna col commercialista e due figli gemelli con i capelli a caschetto identici in tutto ai bambini nazisti della kinders. Tutti dentro il garage, magari, no. Diciamo più o meno intorno. Cioè, circondato. Dovunque la domanda è: un orrore di queste proporzioni vale più del sole e del gelato di oggi pomeriggio? Più di qualunque ragazza? Più di Valentina che arriva sorridendo all'appuntamento con dieci minuti di ritardo e una maglietta blu con dentro quel ben di Dio sorprendente?”

Jack Frusciante Has Left the Band: A Love Story- with Rock 'n' Roll

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“Voglio farle una domanda, disse il dottor Cardoso, lei conosce i médecins-philosophes? No, ammise Pereira, non li conosco, chi sono? I principali sono Théodule Ribot e Pierre Janet, disse il dottor Cardoso, è sui loro testi che ho studiato a Parigi, sono medici e psicologi, ma anche filosofi, sostengono una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perchè noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l'io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.
Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c'è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo. Il dottor Cardoso finì di mangiare la sua macedonia e si asciugò la bocca con il tovagliolo. E dunque cosa mi resterebbe da fare?, chiese Pereira. Nulla, rispose il dottor Cardoso, semplicemente aspettare, forse c'è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c'è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero.”

Sostiene Pereira

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“L’autobus correva lungo una striscia di cemento molto stretta a pelo dell’acqua senza parapetto, niente; tutto lì. L’autista si appoggiava allo schienale e passava rombando su quella stretta striscia di cemento circondata dall’acqua e tutti i passeggeri dell’autobus, venticinque o quaranta o cinquantadue persone si fidavano di lui, ma io no. Ogni tanto c’era un nuovo autista e io pensavo, come li scelgono, questi figli di puttana? L’acqua è profonda su tutt’e due i lati e basta un piccolo errore per andare tutti al creatore. Era ridicolo. Mettiamo che quella mattina avesse litigato con la moglie. O che avesse il cancro. O che vedesse la Madonna. O che avesse i denti cariati. Qualunque cosa. Bastava un niente. Avrebbe potuto impazzire. Buttarci tutti di sotto. Sapevo che se ci fossi stato io, al suo posto, avrei preso in considerazione la possibilità di trascinare tutti in acqua. Mi sarebbe piaciuto. e qualche volta, dopo considerazioni del genere, la possibilità diventa realtà. Per ogni Giovanna d’Arco c’è un Hitler appollaiato dall’altra estremità dell’altalena. La vecchia storia del bene e del male. Ma nessuno di quegli autisti ci buttò mai di sotto. Pensavano soltanto alle rate della macchina, alla partita di baseball, al taglio dei capelli, alle ferie, ai clisteri, alle domeniche in famiglia. In quel branco di merdosi non c’era nemmeno un vero uomo. Arrivavo sempre al lavoro con la nausea ma sano e salvo. Il che dimostra che Schumann era più relativo di Shostakovich…”

Factotum

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“Simone de Beauvoir che scrive la leggenda di Sartre, scolpendo la statua del grand'uomo, sacrificando tutta la verità alla mitologia, fornisce la versione parigina e quindi francese, e quindi europea, e quindi mondiale, della vicenda. Ne, scrive: “Di fronte a un vasto pubblico egli (Camus) dichiarò: “amo la Giustizia, ma prima di essa difenderò mia madre” il che significava mettersi dalla parte dei. Il peggio era che al tempo stesso dava a intendere che si manteneva al di sopra della mischia, avvallando così quanti desideravano ocncilaire questa guerra e i suoi metodi con l'umanesimo borghese.”
È lo stesso libro in cui la liberazione di Sartre dallo stalag nell'aprile del 1941, dovuta probabilmente a un intervento del filo nazista Drieu la Rochelle, si trasforma in un'evasione; in cui la partecipazione di Sartre alla rivista collaborazionistadurante la guerra viene presentata come un errore commesso una sola volta nel 1941, (mentre sappiamo che in realtà ancora nel settembre del 1943 il filosofo entra a far parte di una giunta organizzata dal giornale e il 5 febbraio del 1944 scrive l'elogio funebre di quel Giradoux che aveva celebrato le virtù del Reich nazista), e varie altre verità sulla Resistenza della famosa coppia.
Camus paga per la rettitudine, per l'integrità, per la correttezza delle proprie battaglie, paga per l'onestà, per la passione nei confronti della verità, paga per aver partecipato alla Resistenza quando molti avevano resistito così poco, paga per i propri successi, per le vendite formidabili dei propri libri, paga per il talento e paga, ovviamente, per il Nobel, paga per il fatto di non essere corruttibile, di non aver bisogno di mentire quando si è trattato di tracciare la retta via, paga per la giovinezza, la bellezza, il successo con le donne, paga per la vita filosofica che suona come un rimprovero di fronte all'esistenza di tanti falsari, paga per la fedeltà all'infanzia passata in mezzo alla gente umile, paga per non aver tradito e venduto niente, paga per essere entrato con effrazione, lui figlio di povera gente, nel mono bene di Saint-Germain-des-Prés, paga per aver scelto la Giustizia, la libertà e il popolo in un universo di intellettuali affascinati dalla violenza, dalla ferocia e dalle idee, paga per essere un autodidatta riuscito, paga per aver scritto lui, figlio di un'analfabeta, libri che non avrebbe mai dovuto scrivere perché riservati all' élite, paga perché a fare da legge, sono il risentimento, l'invidia, l'astio e la gelosia.”

Michel Onfray (1959) filosofo francese
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“EDIPO - Non venirmi più a dire che non ho fatto ciò che era meglio, non darmi più consigli. Io non so con quali occhi, vedendo, avrei guardato mio padre, una volta disceso nell'Ade, o la misera madre: verso entrambi ho commesso atti, per cui non sarebbe bastato impiccarmi. O forse potevo desiderare la vista dei figli, nati come nacquero? No davvero, mai, per i miei occhi; e neppure la città, né le mura, né le sacre immagini degli dèi: di tutto ciò io sventuratissimo, l'uomo più illustre fra i Tebani, privai me stesso, proclamando che tutti scacciassero l'empio, l'individuo rivelato agli dèi impuro e figlio di Laio. Dopo avere denunziato così la mia infamia, dovevo guardare a fronte alta questi cittadini? No, affatto: anzi, se fosse stato possibile otturare nelle mie orecchie anche la fonte dell'udito, non avrei esitato a sbarrare del tutto questo misero corpo, così da essere sordo, oltre che cieco. È dolce per l'animo dimorare fuori dai mali. Ahi, Citerone, perché mi accogliesti? Perché, dopo avermi preso, non mi uccidesti subito, così che io non rivelassi mai agli uomini da chi sono nato? O Polibo e Corinto, e voi, che credevo antiche dimore degli avi, quale bellezza colma di male nutrivate in me: ora scopro d'essere uno sventurato, nato da sventurati! O tre strade e nascosta vallata, o querceto e gola alla convergenza delle tre vie, che beveste il sangue di mio padre, il mio, dalle mie stesse mani versato, vi ricordate di me? Quali delitti commisi presso di voi, e quali altri poi, giunto qui, ancora commisi! O nozze, voi mi generaste: e dopo avermi generato suscitaste ancora lo stesso seme, e mostraste padri, fratelli, figli, tutti dello stesso sangue; e spose insieme mogli e madri, e ogni cosa più turpe che esiste fra gli uomini. Ma, poiché ciò che non è bello fare non bisogna neppure dire, nascondetemi al più presto, per gli dèi, via di qui, o uccidetemi, o precipitatemi in mare, dove non mi vedrete mai più. Venite, non disdegnate di toccare un infelice; datemi ascolto, non temete: i miei mali nessun altro mortale può portarli, tranne me.

Sofocle, Edipo Re [Esodo]”

Sofocle (-496–-406 a.C.) tragediografo ateniese

Oedipus Rex

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“Quello che hai fatto una volta, lo rifarai”

Lesley Lokko (1964) scrittrice e architetto ghanese

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“Gli scrittori di oggi, e ci sono anch'io fra quelli, hanno la tendenza a mettere in risalto l'avvilimento dello spirito, e Dio solo sa quanto spesso la cosa avvenga. Ma quando, qualche volta, questo non succede, è come se si accendesse un faro davanti a noi. E a tale proposito voglio dedicare un momento per spiegare come stanno le cose. A dispetto dei sorrisini provenienti dai sudisti della "Cintura delle Nevrosi" e dagli scrittori, sono convinto che i grandi- Platone, Lao-tsu, Buddha, Gesù, Paolo, oltre ai profeti ebrei- non siano arrivati fino a noi in forza della loro negatività. Chi scrive ha il dovere di incoraggiare, illuminare e dare sollievo alla gente. Se si può dire che la parola scritta sia in qualche modo servita allo sviluppo della specie e a un mezzo sviluppo della cultura, il suo contributo è consistito in questi: che una grande opera può dirsi tale se si offre come un bastone a cui si può appoggiare, una madre a cui ci si può rivolgere, la saggezza che corregge i passi falsi della follia, la forza che soccorre quando si è deboli e il coraggio che viene in aiuto quando si ha paura. Non saprei peraltro dire come si possa affrontare la realtà con un atteggiamento negativo o in preda alla disperazione e chiamare tutto questo letteratura. E' pur vero che siamo fragili, brutti, meschini e litigiosi, ma se quel che siamo fosse tutto qui, saremmo scomparsi dalla faccia della terra ormai da millenni. Questo oggi mi sento di dire, e lo voglio dire in modo chiaro, sì che non lo si debba dimenticare leggendo quanto di terribile e increscioso seguirà in questo libro; e perché il territorio a est dell'non è l'Eden, questo certamente no, ma non si può nemmeno dire che si collochi a un'insuperabile distanza." Da il suo”

John Steinbeck (1902–1968) scrittore statunitense
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“Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. […] Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!…
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!… -

[, 1882]”

Giovanni Verga (1840–1922) scrittore italiano
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