Frasi su verso
pagina 27

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“So che stai leggendo tardi questa
poesia, prima di lasciare l' ufficio
con l'abbagliante lampada gialla e la finestra nel buio
nell'apatia di un fabbricato sbiadito nella quiete
dopo l'ora di traffico. So che stai leggendo questa poesia
in piedi nella libreria lontano dall'oceano
in un giorno grigio di primavera, fiocchi sparsi di neve
spinti attraverso enormi spazi di pianure intorno a te.
So che stai leggendo questa poesia
in una stanza dove tanto è accaduto che non puoi sopportare
dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti
e la valigia aperta parla di fughe
ma non puoi ancora partire. So che stai leggendo questa poesia
mentre il treno della metropolitana perde velocità e prima di salire
le scale
verso un nuovo tipo d'amore
che la vita non ti ha mai concesso.
So che stai leggendo questa poesia alla luce
del televisore dove immagini mute saltano e scivolano
mentre tu attendi le telenotizie sull'intifada.
So che stai leggendo questa poesia in una sala d'attesa
Di occhi che s'incontrano sì e no, d'identità con estranei.
So che stai leggendo questa poesia sotto la luce al neon
nel tedio e nella stanchezza dei giovani fuori gioco,
che si mettono fuori gioco quando sono ancora troppo giovani. So
che stai leggendo questa poesia con una vista non più buona, le spesse lenti
ingigantiscono queste lettere oltre ogni significato però
continui a leggere perché anche l'alfabeto è prezioso.
So che stai leggendo questa poesia mentre vai e vieni accanto alla stufa
scaldando il latte, sulla spalla un bambino che piange, un libro
nella mano
poiché la vita è breve e anche tu hai sete.
So che stai leggendo questa poesia non scritta nella tua lingua
indovinando alcune parole mentre altre continui a leggerle
e voglio sapere quali siano queste parole.
So che stai leggendo questa poesia mentre ascolti qualcosa,
diviso fra rabbia e speranza
ricominciando a fare di nuovo il lavoro che non puoi rifiutare.
So che stai leggendo questa poesia perché non rimane
nient'altro da leggere
là dove sei atterrato, completamente nudo.”

Adrienne Rich (1929–2012) poetessa e saggista statunitense

An Atlas of the Difficult World

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“Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così continua il cammino in un'attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualcosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa in tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una all'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alla nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa in tempo a tornare.”

The Tartar Steppe

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“Ti scrivo mentre tu sei da qualche parte a comprare la Coca-Cola. È la prima volta in vita mia che scrivo una lettera a qualcuno seduto accanto a me su una panchina. Ma se non facessi così dubito che riuscirei a farti arrivare quello che ti voglio dire. Perché tu non ascolti niente di quello che dico, prova a dire che non è vero. “Se può interessarti, oggi tu hai fatto una cosa molto grave nei miei confronti. Non ti sei neanche accorto che ho cambiato pettinatura. Piano piano, con sacrificio, avevo aspettato che mi crescessero i capelli e lo scorso week-end finalmente mi sono fatta fare un taglio femminile. Ma tu non ci hai fatto neanche caso. Ero così sicura di essere carina nella mia nuova pettinatura che non vedevo l'ora di farti una sorpresa, tanto più che era la prima volta che ci vedevamo da tanto tempo. E tu non te ne sei nemmeno accorto! Ti rendi conto di che vuoi dire? Figuriamoci, se è per questo probabilmente non sapresti dire neanche com'ero vestita. Ma guarda che io sono una donna. Per quanti pensieri tu possa avere, potresti almeno degnarmi di uno sguardo. Sarebbe bastato poco. Se solo mi avessi detto, non dico tanto, qualcosa tipo “Carina, questa pettinatura‟, ti avrei lasciato fare come volevi, immergerti nei tuoi pensieri quanto volevi. “Perciò sto per dirti una bugia. Ti dirò che ho un appuntamento a Ginza con mia sorella. Non è vero. Pensando di restare stanotte a dormire da te mi ero portata perfino il pigiama. Sì, se lo vuoi sapere nella mia borsa ci sono pigiama e spazzolino da denti. Mi viene da ridere, se penso a quanto sono cretina. A te l'idea di invitarmi a casa tua non ti ha sfiorato nemmeno. Ma non importa. Visto che ci tieni tanto a startene da solo fregandotene altamente di me, rimani pure da solo e pensa a tutti i tuoi problemi quanto vuoi senza nessuna interferenza da parte mia. “Il guaio è che non riesco nemmeno ad avercela con te. Mi sento soprattutto sola. In fondo sei sempre stato gentile con me mentre io per te non ho fatto niente. Tu sei sempre chiuso nel tuo mondo e ogni volta che io provo a bussare e a chiamarti tu mi lanci al massimo un'occhiata e subito ti richiudi in te stesso. “Eccoti che torni con la Coca-Cola. Vieni verso di me tutto sprofondato nei tuoi pensieri. Quanto vorrei che inciampassi! Ma non inciampi, ti siedi accanto a me come prima e bevi la tua Coca. Avevo un residuo di speranza che tornando notassi qualcosa e dicessi: “Di' un po‟, ma hai cambiato pettinatura?‟ Invece niente. Se te ne fossi accorto anche in ritardo avrei strappato questa lettera e ti avrei detto: “Dai, andiamo a casa tua. Ti cucinerò una cena favolosa e poi andremo a letto felici e contenti‟. Ma tu sei ottuso come un pezzo di legno. Sayonara.
P. S. La prossima volta che ci vediamo a lezione evita di rivolgermi la parola.”

Norwegian Wood

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“E solo per un attimo avevo raggiunto quell'apice d'estasi che avevo sempre desiderato raggiungere, che era il completo passaggio attraverso il tempo cronologico nelle ombre senza tempo, e stupore nella desolazione del regno mortale, e la sensazione di morte che mi batteva ai calcagni perché andassi avanti, con un fantasma che stava alle calcagna di se stesso, e io che correvo verso un trampolino dal quale si tuffavano tutti gli angeli per volare nel vuoto sacro della vacuità non creata, le potenti e inconcepibili radiazioni che splendono nella luminosa Essenza Mentale, innumerevoli regioni del loto che sbocciavano in un magico sciamare di falene nel cielo. Potevo sentire un indescrivibile rombo ribollente che non era nelle mie orecchie ma dovunque e non aveva niente a che fare col suono. Capii che ero morto ed ero tornato alla luce innumerevoli volte ma solo non me lo ricordavo, soprattutto perché i passaggi dalla vita alla morte e di nuovo alla vita sono così fantomaticamente facili, una magica azione per nulla, come cadere addormentati e svegliarsi di nuovo un milione di volte, la pura casualità e la profonda ignoranza di ciò. Capii che era solo a causa della stabilità della Mente intrinseca che aveva luogo questo lieve ondeggiare del nascere e del morire, come l'azione del vento su una distesa di acqua pura, serena, simile a uno specchio. Provavo un senso di benedizione dolce, travolgente, come un grosso getto di eroina nella vena principale; come un sorso di vino nel tardo pomeriggio che ti fa rabbrividire; i piedi mi formicolavano. Mi pareva che sarei morto da un momento all'altro. Ma non morii…”

On the Road

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“Le isole sono diverse. E se l'isola è piccola è ancora più vero. Guardate l'Inghilterra, è quasi inconcepibile che questa stretta distesa di terra sorregga tanta diversità: il cricket, il tè alla panna, Shakespeare, Sheffield, il fish and chips nel giornale imbevuto d'aceto, Soho, Oxford e Cambridge, il lungomare di Southend, le sedie a sdraio con le righe a Green Park, i Beatles e i Rolling Stone, Oxford Street, i pigri pomeriggi domenicali. Tutte contraddizioni, che marciano tutte insieme come dimostranti ubriachi che non si sono ancora resi conto che la principale causa di protesta sono proprio loro. Le isole sono pionieri, gruppi divisi, malcontento, pesci fuor d'acqua, isolazionisti naturali. Come ho detto, diverse.
Quest'isola, per esempio. Da un capo all'altro soltanto una corsa in bicicletta. Un uomo che camminasse sull'acqua riuscirebbe a raggiungere la costa in un pomeriggio. L'isola di Le Devin, uno dei molti isolotti intrappolati come granchi nelle secche lungo il litorale della Vandea, oscurata da Noirmoutier dal lato prospiciente la costa, dall'Ile d'Yen a sud; in una giornata nebbiosa si potrebbe non notarla affatto. Le carte la citano a malapena. In effetti non merita quasi lo status di isola, essendo poco più che un grappolo di banchi di sabbia con qualche pretesa, una dorsale rocciosa che la solleva dall'Atlantico, un paio di villaggi, un piccolo stabilimento dove mettono il pesce in scatola, un'unica spiaggia. Al capo estremo, casa mia, Les Salants, una fila di casette, appena sufficienti per chiamarlo paese, distribuite fra rocce e dune verso un mare che guadagna terreno a ogni brutta marea. Casa, il posto da cui non si può fuggire, il posto verso cui ruota la bussola del cuore.”

Joanne Harris (1964) scrittrice britannica

Coastliners

“Ieri sera un grosso ratto mi ha attraversato la strada in Fifty-seventh Street. È uscito da sotto lo steccato di un terreno vuoto vicino a Bendel's, ha aspettato una pausa nel traffico, poi è filato verso il lato nord della strada, si è fermato per un po' sul marciapiede buio ed è scomparso. Era il mio secondo ratto della settimana. Il primo è stato in un ristorante greco con le finestre dai davanzali all'altezza dei fianchi. Il ratto è sfrecciato lungo i davanzali puntando dritto verso di me, poi mi ha superata.
«L'hai visto» ha detto Will, sorseggiando la sua birra.
«Un grosso topo» ho risposto. «Ormai anche nei buoni alberghi si trova qualche topino, nel bar o nell'atrio». L'ultima volta che avevo visto Will era stato a Oakland; prima ancora, in Louisiana. Lavorava nel settore legale. Poi qualcosa, forse un senso di allarme ai margini del mio campo visivo, è spuntato da sinistra, correndo verso la mia faccia. Ho sentito l'acciottolio della forchetta.
«Stavi andando alla grande» ha detto Will, ghignando, «finché non hai perso la calma».
Il secondo ratto, naturalmente, poteva anche essere il primo che si era spostato più a nord, nel qual caso o il ratto mi segue, oppure fa i miei stessi tragitti e orari. Tuttavia sono convinta che la sanità mentale sia la scelta etica più profonda del nostro tempo. Due ratti, dunque. I tassisti non sentono neppure le indicazioni attraverso quei nuovi divisori, che a me non sembrano davvero antiproiettile, anche se, naturalmente, non ho mai verificato. Antirumore. Le dita s'incastrano, questo è certo, nei nuovi recipienti per i soldi. Be', qualcuno ha venduto i divisori. Qualcuno li ha comprati. Disonesti, chiaramente. Sembra che non esista uno spirito dei tempi. Stavo per alzarmi assurdamente presto, quando Will, che si butta nel sonno con una violenza pari alla sua mitezza da sveglio, mi ha detto: «Stai qui. è normale». Invece ho trovato un taxi per tornare a casa, sotto la pioggia, davanti a un'armeria.”

Renata Adler (1938) scrittore, critico cinematografico, giornalista

Mai ci eravamo annoiati

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“Correva verso il lago con un volo costante che non pareva corrispondere alla misura del passo umano”

Maria Bellonci (1902–1986) scrittrice e traduttrice italiana

Tu vipera gentile

“Ecco perché sono su questo pianeta, in questo tempo, Francesca.
Non per viaggiare o fare fotografie, ma per amarti. Adesso lo so.
Per molti più anni di quanti non ne abbia vissuti, ho continuato a precipitare dall'orlo di un luogo immenso e altissimo.
E in tutti questi anni precipitavo verso di te”

The Bridges of Madison County
Variante: Ecco perché sono su questo pianeta, in questo tempo, Francesca.
Non per viaggiare o fare fotografie, ma per amarti. Adesso lo so.
Per molti più anni di quanti non ne abbia vissuti, ho continuato a precipitare dall'orloo di un luogo immenso e altissimo.
E in tutti questi anni precipitato verso di te

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“Dal Ka-Be la musica non si sente bene: arriva assiduo e monotono il martellare della grancassa e dei piatti, ma su questa trama le frasi musicali si disegnano solo a intervalli, col capriccio del vento. Noi ci guardiamo l'un l'altro nei nostri letti, perchè tutti sentiamo che questa è musica infernale.
I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l'ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l'espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomoni per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c'è più volontà, ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione rilflessa dei muscoli sfatti. […] Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestiemme e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato centro volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell'anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare all'uomo.”

Primo Levi (1918–1987) scrittore, partigiano e chimico italiano
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“«Una volta» disse mia madre «non esisteva il buio totale. Persino di notte, la luna era luminosa quanto il sole. L’unica differenza stava nella luce, che era blu. Vedevi tutto per chilometri e chilometri e non faceva mai freddo. Si chiamava crepuscolo».
«Perché crepuscolo?».
«Perché è una parola in codice per cielo blu». Mi ero ricordata che si diceva codice blu quando moriva qualcuno, e anche questo aveva a che fare con il cielo.
Un giorno Dio aveva chiamato il pipistrello per dargli una cesta da portare sulla Luna. La cesta era piena di buio, ma Dio non aveva detto al pipistrello cos’era, solo “Portala sulla luna, poi quando torni ti spiego tutto”. Così il pipistrello parte in cerca della luna con la cesta in groppa. Mentre vola verso il cielo, la luna lo vede e si nasconde dietro una nuvola. Il pipistrello è stanco, e si ferma a riposare. Depone la cesta e va in cerca di qualcosa da mangiare. Mentre è a caccia, arrivano altri animali (più che altro lupi e cani, e anche un tasso con una zampa rotta). Pensando che nella cesta ci sia del cibo, gli animali alzano il coperchio, ma dentro c’è solo il buio, e loro non l’hanno mai visto. I cani e i lupi cercano di tirarlo fuori e di giocarci, ma gli guizza tra i denti e scivola via. In quel momento torna il pipistrello, apre la cesta e la trova vuota. Gli altri animali spariscono nella notte e il pipistrello si alza in volo per andare a riprendere il buio. Lo vede dappertutto, ma non riesce proprio a infilarlo di nuovo nella cesta. Per questo il pipistrello ancora oggi dorme tutto il giorno e vola di notte. Cerca sempre di riprendere il buio.”

Jenny Offill (1968)

Le cose che restano

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“Il cretino non parla neppure, sbava, è spastico. Si pianta il gelato sulla fronte, per mancanza di coordinamento. Entra nella porta girevole per il verso opposto."
"Come fa?"
"Lui ci riesce. Per questo è cretino. Non ci interessa, lo riconosci subito, e non viene nelle case editrici. Lasciamolo lì."
"Lasciamolo."
"Essere imbecille è più complesso. È un comportamento sociale. L'imbecille è quello che parla sempre fuori del bicchiere.
"In che senso?"
"Così". Puntò l'indice a picco fuori del suo bicchiere, indicando il banco. "Lui vuol parlare di quello che c'è nel bicchiere, ma com'è come non è, parla fuori. Se vuole, in termini comuni, è quello che fa la gaffe, che domanda come sta la sua bella signora al tipo che è stato appena abbandonato dalla moglie. Rendo l'idea?"
"Rende. Ne conosco."
"L'imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane. Mette tutti in imbarazzo, ma poi offre occasioni di commento. Nella sua forma positiva, diventa diplomatico. Parla fuori del bicchiere quando la gaffe l'hanno fatta gli altri, fa deviare i discorsi. Ma non ci interessa, non è mai creativo, lavora di riporto, quindi non viene a offrire manoscritti nelle case editrici. L'imbecille non eice che il gatto abbaia, parla del gatto quando gli altri parlano del cane. Sbaglia le regole di conversazione e quando sbaglia bene è sublime. Credo che sia una razza in via di estinzione, è un portatore di virtù eminentemente borghesi. Ci vuole un salotto Verdurin, o addirittura casa Guermantes. Leggete ancora queste cose voi studenti?"
"Io sì."
"L'imbecille è Gioacchino Murat che passa in rassegna i suoi ufficiali e ne vede uno, decoratissimo, della Martinica. 'Vous êtes nègres?" gli domanda. E quello: "Oui mon général!". E Murat: "Bravò, bravò, continuez!" E via. Mi segue? Scusi ma questa sera sto festeggiando una decisione storica della mia vita. Ho smesso di bere. Un altro? Non risponda, mi fa sentir colpevole. Pilade!"
"E lo stupido?"
"Ah. Lo stupido non sbaglia nel comportamento. Sbaglia nel ragionamento. È quello che dice che tutti i cani sono animali domestici e tutti i cani abbaiano, ma anche i gatti sono animali domestici e quindi abbaiano. Oppure che tutti gli ateniesi sono mortali, tutti gli abitanti del Pireo sono mortali, quindi tutti gli abitanti del Pireo sono ateniesi."
"Che è vero."
"Sì, ma per caso. Lo stupido può anche dire una cosa giusta, ma per ragioni sbagliate.”

Umberto Eco (1932–2016) semiologo, filosofo e scrittore italiano
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“A certe latitudini c’è un arco di tempo che precede e segue il solstizio d’estate, poche settimane appena, in cui il crepuscolo diventa lungo e azzurro. […] Passi davanti a una vetrina, t’incammini verso Central Park e ti trovi a nuotare nell’azzurro: la luce è azzurra, e nel giro di un’ora questo azzurro s’infittisce, diventa più intenso proprio mentre si oscura e sbiadisce, infine si avvicina all’azzurro delle vetrate in una giornata limpida a Chartres, o all’azzurro dell’effetto Čerenkov, prodotto dalle radiazioni elettromagnetiche nelle barre di combustibile nucleare immerse nell’acqua. I francesi chiamavano questo momento del giorno «l’heure bleue». Per gli inglesi era «the gloaming», l’imbrunire. La parola stessa è densa di echi e riverberi – l’imbrunire, il crepuscolo, il tramonto – parole che evocano immagini di persiane che si chiudono, giardini che si oscurano, fiumi con argini d’erba che scivolano nell’ombra. Durante il periodo delle notti azzurre pensi che la fine del giorno non arriverà mai. Quando le notti azzurre volgono al termine (e finiranno, e finiscono) provi un brivido improvviso, un timore di ammalarti, nel momento stesso in cui te ne accorgi: la luce azzurra se ne sta andando, le giornate si son già fatte più corte, l’estate è finita. Questo libro si intitola «Notti azzurre» perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio.”

Blue Nights

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“Questa è la fattoria Hale.
Ecco la vecchia stalla per la mungitura, l’entrata buia che dice Vieni a cercarmi.
Ecco la banderuola, la catasta di legna.
Ecco la casa, echeggiante di storie.
È presto. Il falco vola lento nel cielo sgombro. Una sottile piuma blu volteggia nel vuoto. L’aria è fredda, limpida. La casa è silenziosa, come la cucina, il divano di velluto blu, la piccola tazza da tè bianca.
Da sempre la fattoria canta per noi, le sue famiglie perdute, i suoi soldati e le mogli. Durante la guerra, quando arrivarono con le baionette, entrando con la forza, gli stivali infangati sulle scale. Patrioti. Banditi. Mariti. Padri. Dormivano nei letti freddi. Razziavano la cantina in cerca di barattoli di pesche sciroppate e barbabietole da zucchero. Accendevano grandi fuochi nel campo, e le fiamme si contorcevano, schioccando alte verso il cielo. Fuochi che ridevano. Le facce calde brillavano e le mani erano in tasca, al riparo. Arrostivano un maiale e strappavano la carne dolce e rosea dall’osso. Dopo, si succhiavano via il grasso dalle dita, un sapore familiare, strano.
Ce ne sono stati altri – molti – che hanno rubato, smantellato e saccheggiato. Perfino i tubi di rame, perfino le mattonelle di ceramica. Quello che potevano prendere, prendevano. Hanno lasciato solo i muri, i pavimenti spogli. Il cuore pulsante in cantina.
Noi aspettiamo. Siamo pazienti. Aspettiamo notizie. Aspettiamo che ci venga detto qualcosa. Il vento sta provando a farlo. Gli alberi ondeggiano. È la fine di qualcosa; lo sentiamo. Presto sapremo.”

All Things Cease to Appear

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“Robert Lindet, ossessionato creatore di quella piovra che aveva la sua testa nel comitato di sicurezza generale e che stendeva le braccia, ventunmila!, su tutta la Francia attraverso i comitati rivoluzionari; Lebuef, sul quale Girey-Duprè scrisse nel suoquesto verso: «Lebouf vit Legendre et beugla»; Thomas Paine, americano, incline alla clemenza; Anacharsis Cloots, tedesco, barone, milionario, ateo, hébertiano, animo candido; l'integerrimo Lebas, amico dei Duplay; Rovère, una delle rare creature che godono della perfidia come uno può godere dell'arte per l'arte, il che avviene più frequentemente di quanto non si creda; Charlier, il quale voleva che si trattassero gli aristocratici con il; Tallien, elegiaco e feroce, dai cui amori nascerà il 9 termidoro; Cambacéres, un procuratore che diverrà principe; Carrier, un procuratore che si paleserà tigre; Laplanche, il quale esclamò un giorno: «Voglio che sia data priorità al cannone d'allarme»; Thuriot, che propose la votazioneda parte dei giurarti del tribunale rivoluzionario; Bourdon de l'Oise, che sfidò a duello Chambon, denunciò Paine e fu denunciato da Hébert; Fayau, il quale propose l'invio nella Vandea di «un'armata incendiaria»; Tavaux, che il 13 aprile tentò la mediazione tra Gironda e Montagna; Vernier il quale chiese che i capi girondini e quelli della Montagna andassero a servire la patria come semplici soldati; Rewbell, che si chiuse dentro Magonza assediata; Bourbotte, che ebbe il suo cavallo ucciso alla presa di Saumur; Guimberteau, che fu a capo dell'armata delle Côtes di Cherbourg; Jard-Panvilliers, il quale comandò le truppe della Côtes de la Rochelle; Lecarpentier, che comandò la squadra di Concale; Roberjot, vittima dell'imboscata di Radstadt; Prieur de la Marne, che si compiaceva di indossare sul campo di battaglia le sue vecchie spalline di comandante si squadrone; Levasseur de la Sarthe, il quale, con una sola parola, indusse al sacrificio Serrent, comandante del battaglione di Saint-Armand; Reverchon, Maure, Bernard de Saintes, Charles Richard, Lequinio, e, in testa a questo gruppo un Mirabeau che portava il nome di Danton. Estraneo a questi due gruppi e dominatore di entrambi, Robespierre.”

Victor Hugo (1802–1885) scrittore francese
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“EDIPO - Non venirmi più a dire che non ho fatto ciò che era meglio, non darmi più consigli. Io non so con quali occhi, vedendo, avrei guardato mio padre, una volta disceso nell'Ade, o la misera madre: verso entrambi ho commesso atti, per cui non sarebbe bastato impiccarmi. O forse potevo desiderare la vista dei figli, nati come nacquero? No davvero, mai, per i miei occhi; e neppure la città, né le mura, né le sacre immagini degli dèi: di tutto ciò io sventuratissimo, l'uomo più illustre fra i Tebani, privai me stesso, proclamando che tutti scacciassero l'empio, l'individuo rivelato agli dèi impuro e figlio di Laio. Dopo avere denunziato così la mia infamia, dovevo guardare a fronte alta questi cittadini? No, affatto: anzi, se fosse stato possibile otturare nelle mie orecchie anche la fonte dell'udito, non avrei esitato a sbarrare del tutto questo misero corpo, così da essere sordo, oltre che cieco. È dolce per l'animo dimorare fuori dai mali. Ahi, Citerone, perché mi accogliesti? Perché, dopo avermi preso, non mi uccidesti subito, così che io non rivelassi mai agli uomini da chi sono nato? O Polibo e Corinto, e voi, che credevo antiche dimore degli avi, quale bellezza colma di male nutrivate in me: ora scopro d'essere uno sventurato, nato da sventurati! O tre strade e nascosta vallata, o querceto e gola alla convergenza delle tre vie, che beveste il sangue di mio padre, il mio, dalle mie stesse mani versato, vi ricordate di me? Quali delitti commisi presso di voi, e quali altri poi, giunto qui, ancora commisi! O nozze, voi mi generaste: e dopo avermi generato suscitaste ancora lo stesso seme, e mostraste padri, fratelli, figli, tutti dello stesso sangue; e spose insieme mogli e madri, e ogni cosa più turpe che esiste fra gli uomini. Ma, poiché ciò che non è bello fare non bisogna neppure dire, nascondetemi al più presto, per gli dèi, via di qui, o uccidetemi, o precipitatemi in mare, dove non mi vedrete mai più. Venite, non disdegnate di toccare un infelice; datemi ascolto, non temete: i miei mali nessun altro mortale può portarli, tranne me.

Sofocle, Edipo Re [Esodo]”

Sofocle (-496–-406 a.C.) tragediografo ateniese

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“Quando ero piccola mia madre mi lesse una storia su una ragazzina cattiva. La lesse a me e a mia sorella: ce ne stavamo rannicchiate contro il suo corpo sedute sul divano, mentre lei leggeva ad alta voce un libro che teneva sulle ginocchia. La luce della lampada splendeva su di noi, avvolte da una coperta. La ragazza della storia era bella e crudele. Sua madre era povera, perciò la mandava a lavorare per una famiglia di persone ricche che la viziavano e la coccolavano, ma le dicevano anche di andare a trovare la madre. Lei però si sentiva troppo importante, e si limitava a farsi vedere. Un giorno quella gente ricca la mandò a casa con una pagnotta per la madre, ma quando la ragazza si trovò davanti a una pozzanghera di fango, per non sporcarsi le scarpe ci buttò il pane, e ci mise i piedi sopra. La pagnotta affondò come in una palude, e lei affondò con essa, scendendo giù giù fino a un mondo popolato di demoni e creature orribili. Dal momento che era bella, la regina dei demoni ne fece una statua per donarla al suo bisnipote. La ragazza venne coperta da serpenti e melma, intrappolata e circondata dall’odio di ogni altra creatura. Soffriva la fame, ma non riusciva a mangiare il pane che non le si staccava dai piedi, e poteva sentire quello che la gente diceva di lei: un ragazzo che passava di lì aveva visto che cosa le era successo e lo aveva raccontato a tutti, e tutti dicevano che se lo meritava, persino sua madre diceva che se lo meritava. La ragazza non poteva muoversi, ma anche se avesse potuto avrebbe finito per torcersi di rabbia. “Non è giusto!”, urlò mia madre, facendo il verso alla ragazza cattiva.
Io me ne stavo seduta contro mia madre mentre ci raccontava la storia, e forse per questo mi sembrò di non sentirla semplicemente con le orecchie: la sentii nel suo corpo. Sentivo una ragazza che voleva essere troppo bella. Sentivo una madre che voleva amarla. Sentivo un demone che voleva torturarla. E li sentivo così strettamente mescolati dentro di me che non c’era modo di separare tutte quelle emozioni. La storia mi terrorizzò e mi misi a piangere. Mia madre mi prese tra le sue braccia. “Aspetta”, disse, “la storia non è finita: lei sarà salvata dalle lacrime di una bambina innocente come te”. Mia madre mi baciò sulla fronte per poi finire di raccontare la storia. E io l’ho dimenticata per molto, molto tempo.”

Veronica

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